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mercoledì 16 marzo 2011

Il fotovoltaico nel 2010 è stato l'unico grande boom economico

C'era la corsa all'oro, nel 2010 c'è stata la corsa al pannello solare (costruito in cina). L'oro ora scorre sui tetti di capannoni, pensiline, fabbriche e case e proprio nella mia regione, il Veneto, contende il terreno alla coltivazione dei cereali (in alcune zone un ettaro coltivato rende 1000-1500 euro, con i pannelli 4000 euro). Siamo arrivati con diversi anni di ritardo (a fine 2009 la Germania produceva otto volte l'energia solare italiana!), ma guardando ai numeri dell'anno 2010 non c'è che da riconoscere l'unico grande boom economico: oltre 100 mila impianti installati, quasi 2.000 megawatt attivati, circa 900 milioni di incentivi pubblici erogati, almeno 20 mila posti di lavoro. La Germania non ci vede più, almeno sulla produzione di energia solare. La concezione aulica italiana del seminativo a pannello arriva idealmente a concepirlo come "serra ombraria", sotto il quale si possono coltivare fragoline e funghi.

Pannelli fotovoltaici sulla barriera fonoassorbente sull'autostrada del Brennero all'altezza di Isera.
Il fotovoltaico a terra dovrebbe infatti essere connesso per legge con le attività agricole e la sua installazione andrebbe destinata prima di tutto a sostituire coperture in amianto o eternit, prendendo due piccioni con una fava. Gli italiani si sono lanciati nella più grande corsa all'oro, attraverso il tam tam del cosiddetto "conto energia" il contributo per chi installa pannelli fotovoltaici. Una corsa pioneristica, che ovviamente ha bisogno di essere regolamentata, se si è arrivati al paradosso che i terreni agricoli sono diventati terreno di  conquista del fotovoltaico. La Lombardia ha il maggior numero di impianti, mentre la Puglia vince la sfida per potenza installata. Il Veneto ora è la terra di conquista, con la provincia di Padova in pole position. Per vedere le foto più salienti del fotovoltaico italiano clicca qui.

martedì 15 marzo 2011

Quanta energia in Giappone veniva buttata fuori dalla finestra?


Una considerazione sul dramma epocale che sta conoscendo il Giappone. Voglio farlo a partire dall'immagine che ho riportato, che ritrae un solo incrocio della megalopoli Tokyo. Mi chiedo quante decine di centrali nucleari debbano servire, quando le idee ed i principi, che delineano un limite superato il quale non può sussistere il giusto, vengono anestetizzati dalla mera richiesta convulsa di una società consumistica, divoratrice in modo effimero di energia.
Al popolo giapponese chiederei più spirito critico; in questI ultimi anni i giapponesi hanno accettato passivamente di trasformarsi in maschere antismog a passeggio senza battere ciglio e senza domandarsi quale fosse la loro direzione ed il loro futuro. In questa immagine ho cercato di rendere l'idea.
In questo senso abbisogniamo tutti di una Rivoluzione. Una società senza spirito critico, che non rifletta sui propri stili di vita e non li sappia mettere in discussione è un formicaio anestetizzato, guidato dai grandi schermi dove compare il sorriso incantatore di un qualche Berlusconi di turno.

martedì 22 febbraio 2011

Addio all'ufficio. Ritorno alla terra. Ritorno alla felicità.

 
Proprio ieri, il giorno dopo aver finito di leggere le Bucoliche di Virgilio, come ho raccontato nel precedente post, mentre andavo a trovare sul monte Baldo il Re dei formaggi e la sua bellissima famiglia, un vero guru, di cui parlerò più avanti, ho registrato questo video, che vi lascio interpretare.

Alberto Agnesina e Francesca Di Donato vissero felici e contenti.
Vi serve forse leggere sul Sole24ore la storia di Alberto e Francesca, che hanno detto addio all'ufficio e a Milano per dedicarsi ad un allevamento di capre, per capire che la felicità è altrove? Vi serviva davvero vedere i sorrisi in queste foto per realizzare che la felicità è in una vita condivisa nella natura e nella semplicità?

Alberto e Francesca, dietro di loro i marmocchi...che portano indosso un mantello così pregiato, il cashmere. Le capre Cashmere, che provengono dagli altopiani siderali della Mongolia alti 4500 m, dove vivono in condizioni climatiche anche estreme, sono molto rustiche e abbisognano soltanto di una recinzione, dell'acqua e del fieno;  non richiedono quindi impegni gravosi.
Il progetto di vita di vita di Alberto e Francesca poggia su un allevamento di capre da cashmere, a Cavaglia Sterna, a pochi chilometri da Varallo Sesia (Vercelli). Bamboccioni trentenni, con l'ossessione probabilmente di non diventare dei mancati premi nobel come Renato Brunetta, hanno scelto di vivere a contatto con la natura. "Eravamo stufi di una società in cui si lavora dal lunedì al venerdì per poi trascorrere il fine settimana in un centro commerciale!" dice Alberto, che lavora anche come postino a Varallo per garantirsi una entrata economica sicura. Il bilancio? Ogni capo, richiede inizialmente un investimento capitale pari a 1000 euro e 200 euro di fieno per il mantenimento annuo. Per raccogliere la lana pregiata, circa 100-150 gr per capo, bisogna pettinare la capra a primavera. Si va bene la pettinerò direte voi, ma qual è il guadagno? Allora non avete capito niente della vita. La soddisfazione della vita non sono i schei, ma andare ad una festa dell'Unità ed affermare con sufficienza di produrre lana di cashmere made in Italy!!!!!!
Piccolo di capra Cashmere; Charlie, costretto a prendere il biberon perché quando è nato si è bagnato con il liquido amniotico di un'altra capra e la madre si rifiuta di allattarlo.
Questo tipo di capra mangia rovi, ortiche, un po' di tutto e pertanto sono indicate per la bonifica e il mantenimento dei terreni sottosviluppati o incolti, soprattutto laddove l'intervento dei mezzi meccanici è arduo a causa delle asperità e della pendenza del terreno. Per tutte le altre foto vi rimando al loro sito internet.

sabato 27 novembre 2010

Avventura alle Gole di Samaria, le più lunghe d'Europa

Le gole di Samaria si trovano a Creta e sono uno dei parchi naturali più belli della Grecia. Il parco si può ammirare pacificamente dall'alto di un belvedere o decidere di affrontare in una lunga camminata di 4\5\6 ore da non sottovalutare anche nella scelta delle calzature che devono essere da montagna,  13 km di pensieri che scorrono nella mente rievocando  l'acqua fresca del mare del giorno prima. Le fontane d'acqua fresca posizionate ogni mezz'ora di cammino, ristorano la propria gola ma la passeggiata è realmente stancante, soprattutto se il destino ha deciso come per il sottoscritto di farvela rifare in salita. Partite presto in modo da evitare l'affollamento, che potrebbe rovinare proprio tutto, oppure la soluzione più avventurosa è partire tardi (ore 12 \ 13) in modo da evitare le masse di turisti che viaggiano in gruppi organizzati e arrivare al bellissimo villaggio sulla costa Agia Roumeli e qui dormire sulla spiaggia o in una qualche caratteristica pensione.

Il percorso è protetto nei punti più esposti, cionondimeno nella gola si sentono sassi cadere e purtroppo il rischio c'è ed è reale.

Nell'occasione ho preso un albero al volo che stava cadendo e l'ho sorretto per fare la foto. Poi l'ho lasciato cadere, come natura vuole..




In questa oasi sopravvivono in libertà gli ultimi esemplari di krikri, una razza locale di capre selvatiche minacciata di estinzione. La kri-kri, pur di dimensioni poco più grandi di quelle di una capra comune, ha un aspetto maestoso: possiede una lunga barba e un mantello bruno con una banda nera che, dal muso, percorre la schiena fino alla coda; più o meno neri possono essere anche il petto e le zampe nel maschio, due lunghe corna ricurve simili a quelle dello stambecco. Nel proprio ambiente naturale è molto timida e schiva e poche persone, turisti o locali, possono dire di averla vista in libertà.




L'imbocca della gola. Notate la bellezza delle pareti rocciose che ripide sprofondano seguendo il solco scavato dal torrente.



 La forza delle acque ha messo a nudo la stratificazione delle rocce.





Il mio bagno al tramonto ad Agia Roumeli dopo 6 ore di cammino. Sulla linea dell'orizzonte la costa libica.
Se arrivate in fondo al parco a pomeriggio, non vi permettono di tornare indietro con la motivazione che il rischio della caduta di massi alla sera aumenta e quindi la pericolosità della gola alla sera è altissima. Io ed i miei amici abbiamo provato comunque a tornare indietro alla macchina, perchè non eravamo attrezzati per dormire fuori ne avevamo portato i soldi per dormire nelle pensioni che comunque ci sono nel bellissimo e caratteristico villaggio egreste di Agia Roumeli, ma siamo stati raggiunti dalle guardie del parco che ce lo hanno impedito ma allo stesso tempo si sono prodigate per fornirci una scorta di pane per la notte. Da un duro scontro ne è nato un dialogo sull'esistenza ed ho lasciato in quella gola un vero amico, un grande uomo, la cui famiglia da sempre sorveglia quelle gole per evitare danni al patrimonio botanico ed alla quiete degli animali.

domenica 14 novembre 2010

Chi protesta sale ruspantemente

Cory and Dana Foht
Chi protesta sale. Vuoi su una gru come gli immigrati di Brescia in questi giorni, vuoi sul tetto di una fabbrica decotta, vuoi due gemelli di 25 anni  della Florida, Cory and Dana Foht, laureati in cinematografia e con la passione per l’ecologia, forse senza aver letto neanche letto il bellissimo "Barone Ruspante" di Italo Calvino, hanno deciso di pernottare sotto le stelle dormendo su una amaca sistemata a sette metri di altezza su un olmo di Central Park a New York. Hanno violato il regolamento del parco se non fosse che certe regole sono fatte per essere infrante. A Cory e Dana, stanno girando l'America in bicicletta, cercando modi alternativi ed economici per procacciarsi cibo e alloggio.  Hanno dichiarato: «Là per aria sei in una dimensione completamente diversa; in un ecosistema vivo e palpitante, lontano dallo stress artificiale della strada» "You're getting into your own little world and rising above the stress of the street life."

Central Park of New York

mercoledì 20 ottobre 2010

La storia di Devis in esplorazione

Poche persone sono in esplorazione. Le altre si sono perse per strada.
Il 20 Aprile 2010 dedicai un post a Devis ed al suo progetto di Ecovillaggio.
Ieri MTV, gli ha trasmesso lo speciale "La storia di Devis". Nel video si è parlato anche di Into the Wild.

domenica 10 ottobre 2010

Gli alberi hanno un cuore che può sanguinare

Nel parco nazionale di Masoala in Madascar, un taglialegna abusivo mette a nudo il cuore del legno di rosa (una varietà di palissandro). Sono centinaia gli ex agricoltori e abitanti delle città che invadono il parco, guadagnando meno di 5 euro al giorno per abbattere un albero che ne frutterà migliaia. Nel giro di poche ore si abbatte un albero che magari aveva messo radici 500 anni prima. I taglialegna rimuovono con le asce tutta la parte esterna del tronco finché rimane solo il caratteristico cuore violaceo. (Fonte National Geographic: vedi reportage)
Leggendo Mauro Corona, si può imparare ad abbracciare gli alberi. Leggendo il National Geographic e precisamente questo reportage , ho visto come gli alberi vengono letteralmente uccisi ed il loro cuore sanguina. In Madascar, la quarta isola del mondo per superficie (585 mila chilometri quadrati), ha 90 per cento della flora e della fauna che sono endemiche, e non si trovano in nessun altro luogo del pianeta: orchidee, piante carnivore, aquile serpentarie, sfolgoranti camaleonti di Parson o lemuri come il vari rosso.

Il “viale dei baobab”, vicino a Morondava, è area protetta dal 2007, ma è anche l’unico tratto sopravvissuto di una fitta foresta abbattuta per fare spazio ai campi coltivati. (Fonte National Geographic: vedi reportage)
Lo spettacolo extraterrestre di enormi baobab con i tronchi a forma di carota possono bene identificare una bellezza unica e indimenticabile. Noi, dall'alto della nostra vorace società consumistica che ci vede consumare un litro di benzina per andare ad acquistare un litro di latte, non possiamo giudicare la disperazione quotidiana dei malgasci, anche perchè ignoriamo deliberatamente il loro dramma preferendo occuparci di gran lunga dei particolari macabri della storia di Cogne, Erba, Garlasco, Avetrana, etc. Il malgascio medio vive con circa un dollaro al giorno. Nel giro di poche ore si abbatte un albero che magari aveva messo radici 500 anni prima. Il danno alla foresta è di gran lunga più grave della perdita del prezioso legname: per ciascuno di quei ceppi di legno di rosa vengono abbattuti quattro o cinque alberi dal tronco più leggero, con i quali viene fabbricata la zattera che porterà il pesante ceppo a valle.  I cinesi, con la loro fissazione per il legno di rosa, sono i maggiori acquirenti.

(Fonte National Geographic: vedi reportage)

Un "pullulare di bande organizzate scatenate in una corsa sfrenata al disboscamento, alimentata anche dall’insaziabile appetito di legname degli approvvigionatori cinesi, che nel giro di pochi mesi hanno importato dalle foreste del Nord-Est del paese legno di rosa per un valore di circa 160 milioni di euro." (Fonte National Geographic: vedi reportage)


Video by Alberto Sciretti

martedì 5 ottobre 2010

Pungoleresti un leone con un punteruolo in ferro per un pubblico pagante? La natura è indomabile.


Due leoni, dopo chissà quali angherie e una vita triste sostanzialmente innaturale lontana dalla loro savana,  hanno attaccato un domatore durante uno spettacolo circense a Lviv in Ucraina. Il domatore Oleksie Pinko, per quanto zoppicante con una gamba insanguinata, forse impossibilitato a battere in ritirata e cercando di riprendere il controllo dell'arena con la violenza colpisce con un punteruolo in ferro un leone, scatenando l'aggressività naturale del felino che trova sostegno in un compagno. I leoni ce l'avevano unicamente con il domatore, ignorando gli addetti del circo che si adoperano per fermare i leoni con getti d'acqua e bastonate in attimi scioccanti, mentre i felini attaccano il domatore. Il domatore, che ha rischiato di essere lettaralmente sbranato, è stato azzannato più volte alle braccia. Pinko è stato portato in ospedale dove è stato operato d'urgenza. Ora è in condizioni giudicate stabili. Ora ha conosciuto un vero leone.


Questo è l'attacco naturale di un leone. Lo pungoleresti con un punteruolo in ferro per far divertire un pubblico pagante?

domenica 19 settembre 2010

Kibera, baraccopoli di Nairobi, 1 milione di persone, l'85% malate di AIDS

Il testo che segue è tratto dal libro "Africa on the road" del giovanissimo esperto Vagabonding Fabio Miggiano, ideatore e autore del progetto di viaggio, ricerca e sensibilizzazione nel sud del mondo, di cui è testimonianza il portale web  http://www.africaontheroad.it/

Il sole in Africa sorge come un palla di fuoco lanciata in alto nel cielo. In un istante il buio della notte scompare e tutto si riempie di una luminosità accecante. È sempre emozionante osservare come la notte se ne vada in pochi minuti e le stradine di Riruta si risveglino. Un attimo prima la Kabira road è deserta e ancora coperta dal cielo stellato e da un silenzio irreale. Subito dopo appare il sole, la gente sbuca da ogni angolo del quartiere e in un battito di ciglia le strade si ripopolano: bimbi in divisa vanno a scuola, gente in giacca e cravatta va a lavorare negli uffici del centro, donne con taniche gialle corrono al pozzo a prende l’acqua o dietro un banchetto a mettere in fila pomodori, banane e manghi, giovani spingono carretti già carichi di merce da trasportare dall’altra parte del compound. A volte mi chiedo dove fossero tutti fino a qualche minuti prima. Dopo una colazione veloce lascio Kivuli. Qualche chilometro a piedi fino alla stazione dei bus. Strada di fango rosso, bancarelle piene di frutta, pesce secco e vestiti, gente che svolge le attività più disparate per tirare avanti, la musica che già dalle prime ore della giornata pervade le strade. Prendo un matatu diretto verso il centro. I matatu sono minibus che fungono da taxi, colmi all’inverosimile, con disegni accattivanti sulla carrozzeria e musica reggae o rap a tutto volume. Ci si ritrova schiacciati tra una ventina di persone, sballottati dalle buche profonde della strada che gli autisti percorrono a folle velocità.
Kibera, la baraccopoli.
 Scendo ad Adam’s , poche centinaia di metri da Kibera, la più grande baraccopoli di Nairobi e una delle più estese al mondo. A Kibera vivono circa 800 mila persone (ma molti dicono che si sia superato il milione) in baracche di fango e lamiera. Ci sono fogne a cielo aperto e nessun servizio sanitario e sociale. È una distesa impressionante di lamiere arrugginite, fino ai grattacieli del centro che s’intravedono tra la foschia e lo smog di questa città infinita. Nella bidonville il tasso di AIDS è elevatissimo, si pensa sia intorno all’85%, ed entrare nello slum di Kibera è come entrare in un tunnel senza uscita. Solo più tardi riuscirò a capire che l’uscita esiste.



Una delle prime persone che ho visto è Mama Esther, una donna sui 35/40 anni, anche se probabilmente la malattia la invecchia. Per arrivare alla sua baracca si cammina lungo una delle strade più larghe di Kibera e poi si svolta sulla destra. Non ci sono vie, non ci sono nomi, non ci sono numeri civici, non c'è nulla di nulla. Ad un certo punto ritrovo una serie di cortiletti uniti da piccoli viali, ed in mezzo le solite pareti di fango e lamiera delle case. Una tenda bianca nasconde l'interno buio della piccola stanza in cui Esther trascorre tutta la giornata. Entriamo, io ed Henry Mutuku, un ragazzo poco, più che ventenne che ho conosciuto questa mattina nei pressi della mia pensione. Lui sarà, la mia guida a Kibera ed è la prima volta che anche lui si spinge fin qua. Esther è li, e sussurra qualcosa da dietro la tenda a righe che ripara il letto. Nella camera ci sono: una vecchia poltroncina, una piccola lampada a cherosene e un fornelletto, qualche stoviglia buttata in una bacinella sotto il letto, un mucchio di lenzuola e alcuni vestiti di fianco al letto. La parete alle mie spalle è ricoperta da sacchi di plastica neri, due taniche vuote sono dietro Ia porta e una piccola finestra sula parete di fronte fa passare la poca luce che illumina l'ambiente. Il pavimento è di terra rossa e una borsa completamente impolverata è appesa a un muro. Ogni cosa sembra essere lì da tempo. La polvere ha ricoperto quasi tutto. In una caraffa sul comodino c'è un po' di porridge. Lo scaldiamo. Appena acceso, il fornelletto a cherosene riempie la stanza di un odore insopportabile, petrolio bruciato. L'aria si fa irrespirabile e i vapori della fiamma coprono tutti gli altri odori. Apro la porta per far correre un po' d'aria. Henry mi dice che vuole andare a riempire una tanica d'acqua. Avverte Esther e io resto a farle compagnia. Ha la voce esile, la vedo solo dal petto in su: il resto del corpo è nascosto dalla tenda. Non vuole toglierla perché dice che dietro è sporco. Rimane sdraiata, lo sguardo fisso nel vuoto, mi punta gli occhi solo un paio di volte per poi distoglierli immediatamente quando si accorge che anche io la guardo. I suoi occhi sono davvero tristi. Ha occhiaie profonde , un polso magrissimo e la pelle ruvida e secca. Mi sento un po’ a disagio. Provo ad usare le poche parole in swahili che conosco e cerco di percepire quello che mi vuole dire. Mi chiede come mi chiamo, mi dice che viene da Kakamega. Dopo qualche tentativo di parlare d’altro, rimaniamo entrambi in silenzio. Io la osservo. Lei, piano piano, chiude gli occhi. Mi guardo attorno. Mi stupisce uno dei calendari che c’è sul muro. È del 1999. C’è una foto di due giraffe con il Kilimnjaro sullo sfondo. Pensare che l’Africa sia anche quello, mentre mi trovo a Kibera, mi travolge. La bellezza e l’orrore dell’Africa stanno in quella baracca, in una foto e in una donna malata di AIDS sdraiata sul letto. Penso che abbia tenuto il calendario per sognare ogni tanto il posto da cui lei viene: Kakamega, la savana, gli animali, il suo villaggio.


Rientra Henry con la tanica piena d’acqua. Il porridge è ormai caldo, lo verso in una tazza mentre Henry lava i piatti. Le passo la tazza, lei ne prende un sorso e la posa velocemente sul comodino. Chiude gli occhi e si immobilizza. Rimango in silenzio. Quando Henry finisce di lavare i piatti decidiamo di andare via. Prima porgiamo una preghiera in swahili. Capisco solo quando incominciano a recitare il Padre Nostro e li seguo in italiano. Un Padre Nostro particolare, come sempre capita da queste parti. Mentre sono lì, penso a come possa esistere un Dio che permetta tutto ciò. Lei mi stringe la mano e sento la forza che solo la preghiera riesce ancora a darle, lezione che ricevo ogni giorno. Poi la saluto, le tendo la mano e la ringrazio, promettendole che tornerò. Henry mi spiega che da tempo cercano di convincerla a tornare al suo villaggio per due motivi. Il primo, perché avrebbe qualcuno vicino a lei (qui infatti non ha neanche un parente); e il secondo, perché i costi di sepoltura sarebbero nettamente inferiori. Perché ormai non c’è più nulla da fare. Al villaggio però non vuole tornare, non vuole che la sua gente la veda così. In campagna, soprattutto quando uno è malato di AIDS, le gente pensa che sia vittima di uno “Jin”, uno spirito cattivo, mandato da qualcuno. Ed è una disgrazia quando uno della propria famiglia è vittima di questi spiriti. Esther quindi preferisce morire, qua, sola, nella preghiera.
Fabio Miggiano a 21 anni ha attraversato tutta l'Africa. L'avventura è stata poi inscatolata in un portale web  http://www.africaontheroad.it/
 Il sole caldo che batte sulla lamiera dei tetti trasforma queste piccole camere in fornaci. L’odore forte di fango, residui di cibo, a volte d’urina rende il respiro affannoso, ma dopo un po’ ci si abitua. Il calore che continua a bruciare è quello delle persone come Esther, gente dallo stomaco di ferro, ma con un cuore d’oro. Gente che è capace di sorridere nonostante storie terribili alle spalle e le condizioni disumane in cui vive. Gente che ringrazia per il nulla materiale che possiede e per le fatiche che è costretta a sopportare. Gente che vive l’oggi senza pensare al domani e che, nonostante tutto, continua a sperare. Gente che ascolta musica rap e mangia hamburger, ma che è ancora molto legata alle proprie tradizioni. Joseph è un ragazzo burundese di diciotto anni, fuggito dal suo paese dopo aver visto uccidere il padre da un gruppo di guerriglieri e arruolatosi in seguito nell’esercito. Dopo qualche mese di dura vita militare nell’esercito tutsi, Joseph ha deciso di rifugiarsi in Kenya. A Nairobi è riuscito a trovare uno sponsor per una scuola e sta cercando di crearsi un futuro da rifugiato, con la consapevolezza di non poter più tornare nel suo paese. Maria (mi racconta una sua amica) era una donna congolese. Scappata dal suo villaggio perché credeva di essere vittima di un sortilegio inflittole da qualcuno geloso della sua bellezza, si è nascosta a Nairobi dove è morta tre settimane fa in una squallida baracca di Kibera, dopo aver accettato di essere malata di AIDS e non vittima di una maledizione. Caroline è una donna con la pelle scura come il carbone e un fisico robusto, nascosto sotto i coloratissimi tessuti a fiori. È madre di cinque figli e deve mantenerne altri tre, orfani di suo fratello. Sopravvive lavando gli indumenti per i vicini e facendo qualche lavoretto per loro. Suo marito l’ha abbandonata qualche anno fa, dopo che lei è rimasta incinta per la quinta volta. Nonostante tutto, è una persona piena di gioia e vitalità, ed è una delle donne più impegnate della parrocchia di Riruta. Ogni domenica va all’altare durante la Messa per ringraziare il Signore della vita che le ha donato.

Moses è un giovane masai: lobo dell’orecchio forato, come tradizione vuole, occhio con taglio orientale e pelle di un nero così profondo da ci si può perdere. È venuto a lavorare qui a Nairobi come guardiano notturno. Moses è innamorato di J., una ragazza attraente del suo villaggio, di cui porta sempre in tasca una foto ingiallita. Dice che rimarrà qui ancora per due o tre mesi, giusto il tempo per comprare le quattro mucche che gli servono per poter riscattare J. dai suoi genitori.


Victor è un ex bimbo di strada. Magro. Dimostra metà degli anni che ha, capelli rossicci carenti di melanina, sintomo della scarsa alimentazione che poteva permettersi con l’elemosina e qualche piccolo furto. Ora vive in una struttura di riabilitazione. Ha smesso di fare uso di colla. Va a scuola e ha da mangiare ogni giorno. Non parla volentieri dell’anno e mezzo che ha vissuto per strada. Adesso è felice. Sta imparando a scrivere e a leggere, anche se fa più fatica dei suoi compagni di classe.


Kibera, la baraccopoli.
Maryanne è una ragazza diciannovenne di Korogocho, una delle baraccopoli più violente di Nairobi. È bellissima, ha lineamenti raffinati, tipici dell’etnia nilotica, un fisico filiforme e il portamento elegante che si addice a una principessa. Lavora in centro. Per mantenere suo figlio vende “amore” ai clienti ricchi degli hotel della città. Orami è quasi un anno. Non ha mai terminato la scuola primaria perché è rimasta incinta a 14 anni. Non le piace il lavoro che fa. Vorrebbe un giorno trovare un buon impiego per mantenere dignitosamente lei e il suo piccolo. È ancora una bambina, ma i suoi occhi dimostrano il suo difficile e doloroso passato. Il mese prossimo dovrà sostenere un colloquio per un corso di taglio e cucito in una parrocchia della zona in cui vive. Dice che fra poco la sua vita cambierà.



Lazarus è volontario presso un’associazione che si occupa di assistenza ai malati di AIDS a Kibera. Non ha un altro lavoro e dedica tutto il tempo ai suoi pazienti. Una notte di metà gennaio, un incendio ha bruciato la sua baracca. Le uniche cose che è riuscito a salvare sono state il pigiama che aveva addosso e un paio di ciabatte infradito. Ha iniziato piano piano a ricomprarsi qualche vestito grazie all’aiuto di alcuni amici, senza mai smettere il suo lavoro a Kibera.

Di fronte alle storie di queste persone, la nostra fortuna è una evidente certezza, ma spesso non ce ne rendiamo conto. Ogni sera mi addormento con un po’ di tristezza, pensando a tutte quelle vite appese a un filo, al dramma che si respira fra i più deboli, fra gli emarginati, degli emarginati, fra i poveri del Terzo Mondo. Ma nonostante tutto, riesco a superare i momenti tristi con la condivisione della sofferenza che incontro ogni giorno fra le strade di questo continente, e alla quale sto imparando a rispondere con le armi più potenti e sottili che l’uomo possieda, l’amore e il silenzio.

sabato 18 settembre 2010

Viaggiatori, non turisti, a suon di «gap-year» , «anno off» , «Year Out»


Dopo aver scritto in un post "Volere volare via: perchè voglio andare via con la scopa di una strega" ho viaggiato, con il timone verso sud-est ma ho viaggiato. Mi ritengo un essere umano veramente libero ed un giorno mi prenderò una fattoria nell'entroterra Mongolo ed allevarò cavalli. Off. Le armi più potenti e sottili che l'uomo possieda, sono l'amore e il sorriso. Turn off. Chi smette di sognare è una personalmente sostanzialmente morta nell'anima. Solo mettendo in viaggio l'anima  si evita che essa, annoiata, abbandoni il proprio corpo. Non c'è niente di più universale dei panni stesi al vento ad indicare la vita  che pulsa in una casa. Sono orgogliosamente socio CTS , perchè mi affascina il motto "Viaggiatori, non turisti" che mi fa sentire più vicino a Goethe e considero la visita al sito del National Geographic a cui mi sono abbonato ed a quello di Greenpeace una condicio sine qua non per affrontare i temi dell'esistenza. La mela è il miglior amico di un viaggiatore, ti fa sentire pulito e sano. Cosa cercano i giovani vagabonding, i globatrotter e i saccopelisti? Lasciarsi viaggiare, un hike dell'anima (Hiking, termine inglese sinonimo di trekking o di escursionismo). Un soggiorno a lesbolandia, una baraccopoli dove battere le mani in mezzo a bambini che hanno di tutto, scabbia, aids, colera ma che sono felici, Mama Africa, Ilha do Mocamique in Mozambico, un treno lentissimo della Indian Railways, la nightlife nella Belgrado maledetta, Kibera la più grande baraccopoli di Nairobi tra le più estese al mondo con 1 milione di persone con tassi di AIDS intorno al 85%, il canto del muezzin a Sarajevo, donare la propria acqua ad una pianta in difficoltà per riconoscenza, la Selva Maestra (Amazzonia), una avventura in Nuova Zelanda, Srebrenica con la puzza di tragedia che non se ne va dai balcani, il sole che in Africa sorge come una palla di fuoco lanciata in alto nel cielo, etc, etc

Il libro "Mollo tutto e parto" di Riccardo Caserini, 39 anni.

Nei paesi anglosassoni, ormai è un must: i 18 anni coincidono con un viaggio che arricchirà il patrimonio culturale e umano, esattamente come si riempie una bottiglia vuota con un buon vino. Si chiama «gap-year» o «anno off», «Year Out», «Anno sabbatico» vale a dire l'anno di pausa (itinerante) prima della scelta dell'università o dell'ingresso nel mondo del lavoro, che non è solo spiaggia, sole, e sangria; è il viaggio della maturità e dell'iniziazione, anche se a qualsiasi età venga fatto, il gap year ti insegna sempre qualcosa. 

In Italia il Cts Education propone il
pacchetto«work & travel» per
ragazzi dai 18 ai 35 anni.

Hippie trail, il viaggio via terra lungo 6000 miglia attraverso sei Paesi (Turchia, Iran, Afghanistan, Pakistan, India, Nepal) e tre grandi religioni che fu il rito di passaggio di tutta una generazione alla fine degli anni '60 e negli anni '70 ed il viaggio verso Capo Nord, ormai sono stati superati da viaggi dove sinceramente ci si lava un po' più spesso rispetto a quella doccia fatta in ogni nazione tipica dell'InterRail, anch'esso al tramonto.

Chi non ha dimenticato il leggendario Robinson Crusoe di Daniel Defoe ed è alla ricerca della libertà assoluta e in fuga da una vita scontata ed ordinaria, lontani dal capo che sclera, sarà anch'egli accontentato: Forbes, uno dei più celebri magazine economici americani, ha provato con l'articolo "The Best Places To Hide" a stilare, la classifica degli otto luoghi più inaccessibili del Pianeta, dove forse è ancora possibile nascondersi per il resto dei propri giorni. 1) Tristan da Cunha, un arcipelago nell'Oceano Atlantico 2) arcipelago di Socotra, nell'Oceano Indiano 3) Darien Gap, l'immensa giungla che divide la Colombia da Panama 4) laguna di San Rafael nella Patagonia cilena 5) l'entroterra della Mongolia che è quello che personalmente mi attira di più, principalmente per l'equitazione, la falconeria e sterminati paesaggi incontaminati 6) parco nazionale di Auyuittuq in Canada 7) penisola della Kamchatka, nell'estremo oriente siberiano che mi divertivo a conquistare con il Risiko 8) Papa Nuova Guinea

giovedì 2 settembre 2010

Chi ha ucciso il Kilimanjaro: UN DRAMMA IRRICONOSCIBILE

Il maestoso Kilimangiaro, uno dei simboli dell'Africa Nera: una foto del 2001 a sinistra e a destra una del 2007.

Abbiamo pochissimi maledetti anni. A causa del Global Warming il maestoso Kilimanjaro è irriconoscibile. Neve e ghiacciai non colorano più la più alta catena africana (5895 metri). Dal 1912 si è perso progressivamente l’85 per cento del ghiaccio. Ghiaccio perenne. Il 26 per cento è scomparso invece solo a partire dal 2000. La montagna, che si alza sui torridi altipiani della Tanzania ed è una sorgente di frescura sta morendo. La ricerca è stata pubblicata sulla rivista Proceedings of the National Academy of Sciences grazie allo studio degli scienziati dell’Ohio State University. Ma i ghiacciai sono in ritirata ovunque. Abbiamo pochissimi maledetti anni.


Of the ice cover present in 1912, 85% has disappeared and 26% of that present in 2000 is now gone.

Mai più così? Scegli.


domenica 22 agosto 2010

Quando il vento del cambiamentò soffierà, costruiremo insieme Mulini a vento

Video che ho girato a Creta nell’Altipiano di Lassithi, un’ampia distesa di campi coltivati e frutteti, irrigati dall’acqua pompata da centinaia e centinaia di mulini a vento presenti ovunque, testimoni di un antico sistema di irrigazione costruito dai Veneziani durante la loro dominazione (1212-1669).

Mulino dell'Altopiano di Lassithi, Creta
Il mondo stà cambiando. Una nuova coscienza è in azione, perchè la Terra non ce la fa più a sopportarci. Il passato ed il palazzo cercano di resistere al rinnovamento, evitando accuratamente termini eversivi quali "sviluppo sostenibile”, “energia da fonti rinnovabili”, “mobilità dolce”, "bioedilizia", etc. Sia mai, bestemmie. Non sentirete mai Berlusconi il palazzinaro, parlare di “commercio equo e solidale” magari fischiettando “Laaa dove c’era l’erbaaaaa…” così come non sarà mai capace, pur essendo proprietario di una sorta di monopolio della comunicazione di produrre film come “La vita è bella”. Non importa se gli scienziati dicono che abbiamo qualche decina di anni prima che le catastrofi climatiche sul nostro pianeta Madre Terra diventino irreversibili; l’importante è far credere agli italiani che le priorità siano la legge sulle intercettazioni telefoniche, perché tutti saremmo spiati, i cantieri e le grandi opere possibilmente con grandi colate di cemento. Per fortuna il mondo sta cambiando e giorno dopo giorno gli italiani scoprono accendendo internet e spegnendo Mediaset, che altrove un'altra coscienza è in azione e un altro mondo è possibile.

Mulino dell'Altopiano di Lassithi, Creta


Turbina AK1000, la turbina sottomarina più grande del mondo è stata presentata in Scozia; è stata realizzata dalla Atlantis Reources Corporation, una società specializzata nel segmento. Stando a quanto preannunciato dagli stessi sviluppatori, la turbina della Atlantis sarà installata attraverso degli ancoraggi sul fondo marino, e connessa alla rete elettrica nazionale, già alla fine dell'estate e sarà in grado di generare energia elettrica utile per soddisfare il fabbisogno di oltre mille abitazioni. Con un diametro di circa 18 metri la turbina gigante dovrebbe consentirle la produzione di 1MW di potenza energetica permettendo alla Scozia di incrementare in maniera significativa la propria produzione di energie rinnovabili.
La casa nel bosco. Una costruzione che si sviluppa in verticale, con una superficie che si confonde con la fitta vegetazione circostante. Lo spazio è diviso in tre piani e dotato di terrazze spaziose. Tutti gli ambienti dell'abitazione sono sfruttati al massimo, ma la suggestione maggiore resta quella del mimetismo dell'abitazione con la natura. Olson Sundberg Kundig Allen Architects, Mazama, Washington, 2005. Tiny Houses, Rizzoli International © Olson Sundberg Kundig Allen Architects, photographer Tim Bies

Si chiama Walden la casa realizzata nel 2006 dall'architetto tedesco Nils Holger Moormann. Accessoriata nei minimi dettagli e profonda poco più di un metro, è l'ideale per offrire un rifugio a chi, in realtà, vole vivere a contatto con la natura e lo spazio aperto senza rinunciare a nessuna comodità. Ha due piani e in quello superiore, più protetto, trovano spazio la camera da letto e un piccolo salotto. È uno degli esempi più interessanti del libro Tiny Houses edito da Rizzoli International. www.rizzoliusa.com © Jäger & Jäger
Una grande cubo di legno, aperto in maniera irregolare verso l'esterno e strutturato per essere posizionato con facilità. Una struttura semplice e essenziale che non ha niente da invidiare, per estetica e comodità, alle architetture più ricercate. Box House, Neeson Murcutt Architects. New South Wales, Australia, 1999. Tiny Houses, Rizzoli International. Brett Boardman

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