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martedì 18 maggio 2010

UN TERRITORIO IN CUI SI MUORE DI TUMORE

We inhabit the corrosive littoral of habit (1940) di James Gleeson
Ribellarsi, ribellarsi ancora finché gli agnelli diverranno leoni

La gente purtroppo è in grado solamente di piangersi addosso, di commiserarsi vicendevolmente per il triste ed infausto fato, vivendo privatamente la malattia oncologica nella disperazione più totale. Si vive il male oscuro con timida vergogna, come se chi ne fosse affetto avesse in qualche modo sbagliato peccando. Malattia come un segno del peccato. Nell'apprendere la notizia, tutti ricerchiamo una colpa innata nell'ammalato: "avrà fumato tanto" "beveva?", quasi ad esorcizzare il pensiero che in fondo possa capitare a chiunque. Chi si ammala, è fuori. Game over.

Un iconema della malattia. Pablo Picasso - Science and Charity
Taluni più arditi, trovano il coraggio di parlarne e allora un intero condominio o una intera via scopre improvvisamente che quasi ogni famiglia conosce o ha conosciuto il male oscuro. Ma la solidarietà che può sorgere, non diventa mai ribellione verso quello che ho chiamato ironicamente il tramonto più bello del mondo. Di fronte a questa emergenza ambientale la società  incredibilmente incrementa il proprio vuoto ed il proprio essere spiritualmente ritardato, attaccandosi alle inezie più superficiali e non ribellandosi. Tutti guardano al cielo e pregano, come se da lì potessero arrivare delle risposte, quando le cause delle morti atroci e corrosive sono lì davanti ai nostri occhi, come aveva capito un operaio fuori dal comune Gabriele Bortolozzo.



Nel 2006 l'avevo riportato testualmente ancora nella mia tesi "Il paesaggio della Gronda della laguna nord", dedicata proprio a questi temi. Esattamente a pag. 260, citavo l’ “Analisi geografica dell’incidenza dei tumori, ASL di Venezia, Mestre e Dolo - Periodo 1988-1997” del Dipartimento di Scienze Oncologiche e Chiururgiche, Istituto Oncologivo Veneto:

"Complessivamente la popolazione della zona esaminata presenta un’incidenza di neoplasia superiore a quella registrata mediamente nella nostra Regione dal RTV. Emerge, in particolare, per entrambi i sessi un eccesso significativo per il tumore del polmone e del fegato che complessivamente non mostrano importanti differenze di distribuzione geografica."

Come si riporta in questo sito http://margheraonline.it/blog , il nostro territorio, la zona in cui viviamo, paga da decenni un tributo pesantissimo all’inquinamento: tangenziale e passante, grandi navi ed aeroporto, centrali elettriche, polo chimico di Marghera. Porto Marghera, in particolare, è stata la prima zona industriale costruita in Italia nel dopoguerra e la prima a dotarsi di inceneritori di rifiuti industriali (due nel 1960) che urbani (due nel 1962).
Immagine suggestiva ed inquitante di un sinistro tramonto su Porto Marghera.
Oggi a Porto Marghera sono attivi, oltre agli impianti chimici:

• 3 centrali elettriche a gas;
• 1 centrale elettrica a nafta;
• 1 centrale elettrica a carbone;
• 1 centrale elettrica a carbone + CDR (combustibile derivato dai rifiuti);
• 1 inceneritore di sfiati e prodotti gassosi;
• 1 inceneritore per clorurati liquidi;
• 1 inceneritore di RSU (rifiuti solidi urbani);
• 1 impianto di inertizzazione di RTN (rifiuti tossico nocivi);
• 1 raffineria (4 milioni di tonnellate di petrolio processati e movimentati ogni anno);
• 1 impianto per la lavorazione del cloro-soda con stoccaggio di cloro e CVM;
• 1500 camini che emettono sostanze tossiche risultato di sfiati industriali o fumi di combustione.
Salvador Dalì - The face of War
Alcuni di questi impianti sono attivi fin dagli anni ’60 e nel corso del tempo, a volte per inconsapevolezza a volte per dolo, sono stati riversati in acqua, aria e terra composti chimici altamente tossici con gli immaginabili impatti sull’ambiente e sulla nostra salute.

A fronte di un così desolante scenario ogni cittadino di buon senso si augura che si inizi quanto prima a bonificare il territorio e che si cerchi di sostituire le lavorazioni più impattanti con attività meno nocive: la zona di Porto Marghera, infatti, potrebbe essere sfruttata per fieristica (ci sono spazi enormi), cantieristica, darsene per barche di ogni misura (in laguna c’è carenza di posti), centri per lo studio di energie alternative, come ad esempio la produzione di energie da moto ondoso o flussi di masse acquee, che affianchino il centro per lo studio applicativo dell’idrogeno già presente al Vega, eliminazione del ciclo del cloro e sostituzione con la lavorazione di plastiche senza cloro. Non è possibile immaginare distese di campi di grano, solo perchè quelle terre sono irrimediabilmente inquinate.

 Quando, si può chiedere a buon diritto ogni abitante di Marghera, Mestre, Venezia e tutte le zone limitrofe, cominceranno le bonifiche? Quando si inizierà a dare un volto nuovo a questo territorio? Certo, la strada è lunga e complessa, ma quando si comincerà a percorrerla?
Purtroppo la risposta che giunge dai nostri amministratori ancora una volta va nella direzione opposta. La Giunta Regionale uscente ha “coronato” il proprio mandato con una serie di azioni che sembrano voler istituire proprio in casa nostra una filiera del trattamento del rifiuto industriale tossico nocivo, facendo arrivare rifiuti da tutta Italia (e domani chissà, forse anche da altre parti d’Europa). In pochi mesi sono state infatti concesse autorizzazioni per l’aumento di lavorazioni a diverse aziende che trattano rifiuti industriali:
L’inceneritore SG31 ha lavorato dal 1972 proprio in quest’ottica: costruito e predisposto per trattare i fanghi di Porto Marghera, è stato in funzione fino a circa un anno fa; è stato poi disattivato perché il nostro polo industriale non produce più sufficiente materiale di scarto per giustificare economicamente il funzionamento dell’inceneritore. I nostri amministratori, la Giunta Regionale presieduta da Galan, anziché cogliere quest’occasione come il primo passo verso una nuova Marghera, hanno ben pensato di incatenare una volta di più questo territorio al ruolo di pattumiera, di fogna chimica, e questa volta a disposizione di chiunque, in Italia, vorrà scaricare da noi i propri scarti industriali tossico-nocivi.

Salvador Dalì - The Three Sphinxes of Bikini (1947)
Oltre al maggior inquinamento da rifiuto tossico si scaricherà nel nostro Comune anche l’aumento di PM10 prodotte dal traffico dei mezzi che porteranno qui i rifiuti dalle altre regioni.
Ognuno di questi fattori (inceneritori, traffico, trattamento rifiuti industriali tossico-nocivi) ha sulla salute effetti devastanti. Le diossine, prodotto dell’incenerimento, non vengono metabolizzate dal nostro organismo e si cumulano nelle nostre cellule; già col latte materno, il primo alimento, le diossine vengono passate al neonato. Sono in aumento costante le patologie infantili: oltre alle problematiche respiratorie (allergia, asma, broncospasmo) sono in costante aumento del 2% annuo i tumori infantili; l’incremento più consistente riguarda proprio i bimbi sotto l’anno di età: + 3,2%. Le polveri sottili, combinandosi con inquinanti quali ossidi di azoto e ossi di zolfo, veicolano all’interno del nostro corpo acidi che attaccano il sistema respiratorio e residui tossico/cancerogeni delle combustioni; questo incide sulla mortalità sia a breve termine (+ 3%) che a lungo termine per cause cardiovascolari, respiratorie e per tumore polmonare. Nel veneziano sono stati rilevati aumenti significativi dell’incidenza delle neoplasie maligne dei tessuti molli e dei sarcomi con sedi viscerali.

Brunetta e Zaia (candidati rispettivamente alle cariche di Sindaco di Venezia e Governatore del Veneto) hanno rilasciato dichiarazioni sulla presunta “vocazione” di Porto Marghera ad ospitare lavorazioni chimiche pericolose, tutto ciò a 6,4 km da piazza Ferretto a Mestre, a 4 km dal parco San Giuliano, a 5 km da piazza Mercato a Marghera, a 6,2 km da piazza San Marco a Venezia.

venerdì 21 novembre 2008

Vajont senza parole: paesaggio lunare

Sciretti Alberto con Bepi Zanfron. Quasi interamente la documentazione fotografica sulla tragedia del Vajont si deve a Bepi Zanfron, conosciuto ed apprezzato fotoreporter di Belluno, accorso già durante le prime ore della tragedia. B. ZANFRON, Vajont, 9 ottobre 1963. Cronaca di una catastrofe, Ed. Agenzia fotografica Zanfron, Belluno, 1998
Sciretti Alberto sulla diga del Vajont
Domenica scorsa sono stato sul Vajont una intera giornata; ormai si sa quasi tutto della tragedia del vajont, quindi ho pensato solo di riportarvi qui tutte le immagini che ho girato; ho visto cose e provato sensazioni che sono indimenticabili. Peccato che così come i medici si sottopongono al giuramento di ippocrate gli ingegneri ed architetti di tutto il mondo non vengano qui, prima di iniziare ad eserciatare, a giurare che mai e poi mai abbandoneranno le ragioni della logica per far spazio a quelle del profitto. La cosa infatti che più vi colpirà visitando i luoghi della tragedia, è che tutto è friabile..provate ad arrampicarvi ...ricordando che Monte Toc in lingua friulana indica anche qualcosa di "guasto", "avariato", "sfatto".
Una delle foto più suggestive: in prospettiva il terreno friabile, la diga e sullo sfondo Longarone che pagherà il prezzo più alto della tragedia.
La frase che mi ha colpito di più di questa tragedia è stata questa: "Quel 9 ottobre del 1963 più di 2000 persone entrarano nel nulla per ambizione ed interessi altrui".
"Gli ertani sono gente tosta. Perseguitati per secoli dalla malasorte, non si sono mai arresi, né mai hanno lucrato o pianto il morto sulle loro tragedie. Hanno grande stabilità, poichè anche loro, come gli alberi, sono nati sul ripido e per stare in piedi su un terreno simile occorre molto equilibrio". Mauro Corona in "Le voci del bosco"
Scritte storiche sui muri delle case di Erto
Queste persone, come tante altre in un paese mediocre come l'Italia, non hanno mai avuto giustizia esattamente come non l'hanno avuta le centinaia di morti del petrolchimico di Marghera anch'esso voluto, come la diga del Vajont, guarda a caso dal conte di Misurata Giuseppe Volpi .
Una carta geografica dettagliata per orientarsi in Val Vajont
La frana:

La frana del Monte Toc con la famosa frattura a forma di M chiaramente visibile anche nelle successive immagini


La Diga:












Paesaggio limitrofo




Erto in lontananza


Erto. In queste foto, immagini del bosco adiacente Erto, che come scrive Mauro Corona in le Voci del Bosco "ha sofferto da sempre. Non ha avuto la vita facile di altri suoi fratelli, non è nato e vissuto in un dolce pendio ma nel ripido, nell'erto appunto. Gli sono mancate le più piccole comodità e tutto ha conquistato con la fatica, così come, con fatica, sono cresciuti gli ertani."




Lago del Vajont
Lago del Vajont
Casso

Casso

Longarone
In lontananza Erto
Documenti
Documenti della tragedia fotografati al Centro Visite di Erto e Casso (PN), situato nel paese di Erto, nell'edificio delle ex-scuole elementari del paese.






























Le varie fasi di costruzione della diga




In alto a destra si vede chiaramente la sala controllo della diga che verrà spazzata via dall'onda assassina
Il modello in scala della diga. Di tipo a doppio arco, lo sbarramento è di 264,60 metri (la quinta diga più alta del mondo, la seconda ad arco) con un volume di 360.000 metri cubi e con un bacino di 168,715 milioni di metri cubi. All'epoca della sua costruzione era la diga più alta al mondo.





Casso
Erto
"Nella cultura chiusa, misogina e tremenda del paese, le cose magiche e sublimi, ma anche infide, traditrici e impossibili da dominare, diventano femmina. [...] Erto viveva del bosco e del bosco coglieva il meglio. Salvo quei pochi che avevano le mucche, tutti gli altri facevano i boscaioli. [...] Alcuni di loro hanno smesso da tempo l'antica arte per andare a fare i gelatai in Germania [...] o partivano per l'Austria o la Francia I taglialegna conoscevano la sofferenza degli alberi e il dolore che procurava il filo dell'ascia nella loro carne e meno colpi davano minore era il tempo della morte" Mauro Corona


La memoria:

Abbiamo il dovere morale di non dimenticare quelle persone che in questa tragedia hanno perso la loro vita; "Quel 9 ottobre del 1963 più di 2000 persone entrarano nel nulla per ambizione ed interessi altrui". Nell'immagine la fotografia di un ragazzo che invece perse la vita a 30 anni costruendo la diga. Nel rispetto di queste persone che non ci sono più noi dobbiamo pretendere che qualsiasi cantiere, qualsiasi progetto, tenga prima di tutto in considerazione il rispetto sacrale che si deve ad ogni vita ed alla natura. Ogni vita va rispettata.

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