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domenica 7 ottobre 2012

Arcadia, a myth or a reality?

Thomas Cole, Dream of Arcadia, 1838. Denver Art Museum.
Let me completely disagree with the idea that 'Arcadia remains an imaginary country' ('Myth of Arcadia' by Susan E. Alcock in Cambridge Illustrated History - Ancient Greece by P. Cartledge) In particular in that article written by Susan E. Alcock it is written that, according to a noted botanist Oliver Rakham, 'land has gone to the bad since classical times'. Stop, stop, stop. It has gone to the bad from which point of view?! Are we judging the hard life of a shepherd dressed in rags with the point of view of a literate citizen of Athens or Cambridge? This is homogenizing and, at this point, I would consider better the ideas of the Physiocrats. The fact that Arcadia was one of the major suppliers of Greek mercenaries seems to oblige us to deal with an 'impoverished region of Greece'. But also the literate citizens of the evolved Sparta and Athens were continually forced to fight (not as mercenaries, ma it doesn't matter, as in war more or less we are all the same) if they wanted to survive! So they were all miserable, according to this point of view! You will accuse me: I don't want to accept 'its harsher, grimmer face'. Of course you are right if you use representations as Thomas Cole's paintings. It is time to check our sources, Pausanias' Guide to Greece and Strabo's Geography.

sabato 17 marzo 2012

Pecoranera meglio se antagonista.

Devis Bonanni, una pecora nera che ha scritto "Africa".
Il 20 Aprile 2010 dedicai un post a Devis ed al suo progetto di Ecovillaggio. Trovandomi alla Marsilio Editori alla fine del 2010 pensai bene, sconfinando rispetto alle mansioni attribuitemi (quanto é bello sconfinare e quanto é triste e noioso replicare meramente le proprie mansioni senza creativitá), di proporre un progetto editoriale su questa storia che ora vede finalmente la luce in un libro intitolato "Pecoranera. Un ragazzo che ha scelto di vivere nella natura" con tanto di articolo del Corriere in pompa magna . All'epoca ricordo passai due notti a lavorare fervidamente su un file in powerpoint che doveva spaccare, volevo che fungesse da testa d'ariete e sfondasse la porta dell'Editore scettico e diffidente ai facili entusiasmi. Piú passano gli anni e piú mi rendo conto come dei piccoli gesti possono cambiare lo scorrere delle cose. In questo senso "Il favoloso mondo di Amélie" é un film da guardare. Pochi giorni or sono, ho scritto una lettera di encomio dedicata ad un professore di Inglese che a mio modo di vedere nel mio college a Cambridge si distingue per creativitá. Tra le altre cose scrissi: "Sometimes you can see the perfect teacher in a film (The Emperor's Club and Dead Poets Society for example), I think I have been lucky to have find him in the reality." Il giorno dopo lo stesso Professore dovendo scrivere delle frasi ipotetiche alla lavagna si é lasciato andare dalla commozione ed ha scritto la seguente frase che traduco direttamente: "Se non avessi ricevuto una lettera di incoraggiamento, oggi avrei dato le dimissioni". Mi é venuta la pella d'oca. Nel tuo piccolo il mondo si puó migliorare. Insomma, quando provi una emozione, quando senti che qualcosa va fatto, fallo e combatti con grinta.

venerdì 30 settembre 2011

Il Diritto Amministrativo? è diventato per lo più inutile, farraginoso e ridondante come l'apparato statale italiano.

Questa estate ho studiato Diritto Amministrativo. Mentre lo Stato Italiano affondava, soffocato dal suo debito e da un apparato asfissiante, e veniva commissariato dalla Bce, sono sceso nei meandri infernali di una disciplina che si è ingrassata tanto quanto le maglie della pubblica amministrazione andavano allargandosi negli ultimi decenni. In fuga dalla semplicità, il diritto amministrativo ben guidato da esperti burocrati e dalla dottrina (che usando una specie di leva dottrinale ne ha moltiplicato l'incomprensibilità) è stato condotto verso il mondo dell'astratto, dove potevano agire indisturbati gli strumenti finanziari più fantasiosi. Regioni, Province e Comuni hanno incominciato ad indebitarsi ed a fallire sotto i colpi bassi dei derivati, delle cartolarizzazioni, del project financing e mettici pure tutto ciò che sfugge a chi non è ancora disturbato. Da sempre sostengo che ciò che diventa incomprensibile all'intelligenza di un cittadino medio è di per sé inutile. Se perfino il sistema delle regole sfugge alla comprensione del cittadino, provate ad immaginare a quali costi per renderlo comprensibile (intermediari) ed al rischio che si crei una casta di burocrati autoreferenziale. Il diritto amministrativo è diventato talmente astruso che perfino i luminari che trattano quotidianamente la materia hanno dimenticato che non è importante la quantità ma la qualità. Ho dovuto studiare tale disciplina su  Elio CasettaCompendio di Diritto Amministrativo, Giuffré, Milano, 2010 (ISBN 88-14-15975-0), testo d'esame adottato dai Proff.ri Gherardo Bergonzini e Alessandro Calegari in servizio presso la Facoltà di Giurisprudenza dell'Università degli studi di Padova. Di libri nella mia vita ne ho letti tanti ma un libro così tremendamente fumoso, arrangiato alla meno peggio, con almeno 65 errori di battitura che ho segnalato all'Editore è il segno che si è raggiunto il limite. Gli errori di battitura dimostrano la superficialità di un prodotto arrangiato alla meno peggio ("Decima edizione riveduta e aggiornata"?) e che perfino il redattore della casa editrice si è sottratto al supplizio della lettura. Immaginate di dover studiare 560 pagine dove la materia ostica viene presentata in modo macchinoso e pieno di errori di battitura. Ti girano le scatole e ti prometti di vendicarti condividendo tale orrore. Il Diritto Amministrativo viene spalmato infatti in 560 pagine (un "Compendio"?) dove i vari istituti vengono presentati in modo contorto in una sorta di elenco della spesa incolore. Chi ha curato il compendio non si è preso la cura di sottolineare l'importanza di un istituto rispetto ad un altro, di operare una selezione funzionale alla comprensione dello studente. Se ognuno di noi si mette a scrivere un concetto senza impegnarsi affinché sia facilmente comprensibile dal proprio prossimo   interrompiamo il ciclo della comunicazione.  Ho speso 42 euro per un libro pensando che fosse stato confezionato a regola d'arte e mi sono ritrovato in libreria un compendio inutile, vomitato in 560 pagine. Un sermone che non trasmette nulla e che non lascia nulla. Chi ha scritto questo libro si è impegnato ad utilizzare un linguaggio vetusto (ad es. stituire pag.144, pervasività pag. 7, delibare pag. 451, etc.) senza mai sforzarsi di adottare quegli accorgimenti essenziali affinché il lettore annettesse gli istituti principali. 

sabato 19 febbraio 2011

L'Arcadia dello spirito nelle Bucoliche di Virgilio

Epitafio sulla tomba di Virgilio: "Mantova mi ha dato la
vita, i Calabri me l'hanno rapita, ora Partenope mi tiene
con sé; ho cantato pascoli, campagne, eroi."
Voglio intercettare quella luce che indora l'uva sui colli solatii; voglio vivere la mia vita a contatto con la natura per avvicinarmi il più possibile alle espressioni del rapporto umano più vero: l'amore e l'amicizia. Voglio parlare di Virgilio (Publio Virgilio Marone), per immergermi nella quieta esistenza della vita campestre e allontanare momentaneamente l'inquitudine per le torbide vicende del berlusconismo che al momento soffocano il Bel Paese. L'apparente distanza degli argomenti trattati non impedisce, spero, che si faccia sentire la meditazione sugli avvenimenti contemporanei. Quanti di voi hanno sognato di fuggire dalla violenza del traffico cittadino, dall'annientamento e dal soffocamento dell'ombra di un palazzo di nove piani? quanti di voi sognano di rifugiarsi in una "Arcadia dello Spirito", in una campagna alla ricerca di un otium idealizzato, dove il tumulto e il timore non raggiungano la quiete dell'esistenza campestre, semplice, sobria, dedita alla bellezza? T.S. Eliot ha scritto a proposito della solitudine: "Tu strascuri e sminuisci il deserto, il deserto non è solo dietro l'angolo, il deserto è compresso nel vagone della metropolitana, è accanto a te, il deserto è nel cuore di tuo fratello". Questo per dire, che costruiamo frequentatissimi non-luoghi, come mastodontici centri commerciali,  dove paradossalmente ci sentiamo però sempre più soli. Ho già parlato in un post di come Francesco Petrarca, l’illustre poeta, quando scelse di stabilirsi ad Arquà Petrarca nel 1370, disse queste parole: "Fuggo la città come ergastolo e scelgo di abitare in un solitario piccolo villaggio, in una graziosa casetta, circondata da un uliveto e da una vigna, dove trascorro i giorni pienamente tranquillo, lontano dai tumulti, dai rumori, dalle faccende, leggendo continuamente e scrivendo".
01/05/2010 Gregge di pecore, fotografate sul monte Baldo dove mi reco spesso anche per passeggiate a cavallo.
Già, perchè nelle nostre città caotiche è impossibile coltivare il regno dello spirito, in cui si possano rinforzare gli ideali umani più profondi; è impossibile riflettere su un ideale di amicizia pura e incondizionata, sulla nostra infanzia e su tutte le piccole cose che ci davano quiete; è impossibile accorgerci dell'ombra protettiva degli alberi, del mormorio dei ruscelli, del quieto pascolare delle caprette quando le notizie delle guerre dei nostri giorni, ci riportano all'amara realtà uccidendo la leggerezza e la scherzosità. In questo post, quindi voglio guardare alla vita dei pastori, alle loro gare di canto, ai loro amori.


Nell'immagine il dio Pan, insegna a Dafni 
a suonare il "Flauto di Pan" (Pompei,ca. 100 a.C.) 

Virgilio è nato nella poesia. Quand'era in attesa del futuro poeta, la madre sognò di partorire un ramo di lauro, e di vederlo subito crescere fino al cielo. Storicamente il "ramo di lauro" venne alla luce il 15 ottobre del 70 a.C vicino a Mantova, nell'area di Pietole ed Andes. Virgilio, figlio di proprietari terrieri, conobbe negli allora incantati paesaggi della pianura padana, la vita e il lavoro della gente di campagna, che tanta parte ebbero nella sua ispirazione. Pensate che Virgilio, dopo aver composto le "Bucoliche" tra il 42 ed il 39 a.C, la sua prima prima opera compiuta, doveva fuggire per la strada all'importuno entusiasmo della gente durante i suoi soggiorni a Roma; in questo momento il popolo italiano acclama i partecipanti ai reality e ai talent show, un mondo dei balocchi effimero. Anche nelle "Georgiche",  composte tra il 37 ed il 30 a.C, il poeta celebra il lavoro dei campi, nella concretezza della coltivazione degli alberi e della vite, dell'allevamento del bestiame e delle api. Leggendo le  Bucoliche di Virgilio mi sono annotato tutte le parole chiavi che potessero alimentare quell'immagine per il tutto, che va sotto il nome di Arcadia e le ho trascritte qui di seguito; parole in disuso ("armenti", "farro" etc) che leggendo tutto d'un fiato, hanno il potere di portarci, come per magia, in un altro mondo. 

abete, acqua, aglio, agnelli, agnellino, allori, altare, alveare, amore, api, aquila, aratro, arco, argilla, argini, aria, ariete, armenti, arsura, avena, barba, bastone, bestia, bosco, buoi, cacio, cagne, cardo, calendule, camini, campagna, campi, campicello, cani, canna, canto, canzoni, capanna, capre, capretti, castagne, cavalle, cera, cerbiatti, cervi, cesto, cielo, cespugli, cicale, cigno,  cinghiali, citisio, città, colombe, contagio, contadino, cornacchia, corno, cotogne, covi, cuccioli, cuore, danza, dei, dio, dirupi, disgrazia, dolore, edera, elicriso, erbe, estate, faggio, falcetto, fanciullo, farro, fatica, fiere, filari, fiore, fiumi, flauto, focacce, focolare, foglie, fonti, formaggio, fragole, frasche, frassino freddo, fresco, frumento, frutti, fuliggine, fuoco, gelo, germoglio, gesta, ghiaccio, ghiande, ghirlanda, giacinto, gigli, ginepri, giogo, gioia, giovane, giovenche, giunco, gloria, gole, grappoli, gregge, grifi, grotta, ibisco, incenso, inverno, lana, latte, lauri, lavanda, leccio, legna, libertà, lido, linci, linfa, lupo,  madri, mandria, manico, mare, mele, mesi, messi, miele, mietitori, mirto, monti, more, muschio, narciso, nettare, nevi, nido, noccioli, noci, nubi, nuvole, oca, odore, olio, olivo, olmo, ombra, ontani, orgoglio, orticello, orzo, ovili, palude, papaveri, pascoli, pastori, pasture, pecore, pelo, peri, pesci, piana, piante, pianto,  pietà, pietra, piffero, pini, pioggerella, pioggia, pioppo, poeta, pomi, porcai, porpora, potatore, povertà, prati, primavera, prugne, querce, ramarro, rami, rasoio, rastrello, resina, riso, riparo, risparmio, ritmo, riva, roccia, roseti, roveto, rugiada, rupi, silvestre, salceto, salice, sambuco, sassi, schiavitù, scorza,selve, sera, serpe, serpillo, siepe, silenzio, soffio, sole, solchi, sonno, sorgenti, speranza, spiga, stalla, stelle, stelo, suolo, sussurro, tempietto, terra, Terra, tetto, timo, tori, torrenti, tortora, tracce, valichi, valli, valore, vampa, vento, verde, versi, viburni, vimini, viole, violetta, vino, vite, vitella, volpi, zampillo, zampogna, sefiro, zoccoli, zolle
Paesaggio amenico che ho recentemente fotografato nel viaggio in Scozia

Sono i processi di lunga durata che creano paesaggi stabilizzati, culturalmente identificabili, mentre i mutamenti di breve durata, creano paesaggi antagonisti, confusi, paesaggi del mutamento e della crisi. Questa è una massima che ho trovato nei libri di quel genio che era Eugenio Turri, massimo geografo italiano. Durante i miei viaggi, dove ho sentito veramente vicino il mondo egreste e bucolico tratteggiato da Virgilio è stato nelle isole greche dell'Egeo, in particolare Ios e Creta. In Italia invece ho sentito  tale sensazione avvicinandomi agli ulivi di Sirmione, vicino alla Grotta di Catullo e ad Arco di Trento in una spianata di ulivi che ho fotografato.
Video che ho girato alla Tomba di Omero; è l'Arcadia?

Eccovi alcuni passi tratti dalle Bucoliche: Qui tra i fiumi di sempre e le sorgenti sacre prenderai il fresco e l'ombra. Di qua la siepe - quella di sempre - sul limite vicino, dove le api iblèe succhiano il fiore del salceto, ti sedurrà col suo sussurro a abbandonarti al sonno. Di là, sotto l'alta rupe, canterà al vento il potatore; e intanto né le rauche colombe, che tu ami, né la tortora in cima all'alto olmo cesserà il suo pianto. 
Una capra che scruta l'orizzonte nel paesaggio egreste di Ios, dove mi sono recato più volte.


Così il pastore Melibeo nelle Bucoliche: Avanti mie caprette, gregge felice un tempo, avanti! Mai più vi guerderò, sdraiato in una verde grotta, arrampicarvi di lontano sul ripido roveto. Non canterò più canzoni; mai più, caprette, sarò il vostro pastore mentre brucate citiso fiorito e amaro salice. 
Sdraiarsi tra gli steli d'erba. Sentirsi in simbiosi con Madre Terra e con la Natura. Sorridere.  
Nelle gole di Samaria a Creta ho osservato in libertà gli ultimi esemplari di kri-kri, una razza locale di capre selvatiche minacciata di estinzione.

lunedì 24 gennaio 2011

Jack London: Il Vagabondo delle stelle

Nel libro Il Vagabondo delle Stelle, Jack London, veleggiando nel cosmo della vita, narra degli eventi storici realmente accaduti, tra questi la storia di Daniel Foss,  che fu l'unica persona a salvarsi del brigantino The Negociator di Alessandria, affondato nell' Oceano Pacifico il 26 Novembre 1811 e che visse tra indicibili sofferenze per cinque anni su un isolotto di scogli di pochi metri quadri, cibandosi della carne cruda delle foche e bevendo acqua piovana, prima di essere avvistato da una nave di passaggio, la U.S.S. Neptune.
Ho eletto da molto tempo Jack London quale mio scrittore preferito. Gli devo la lettura di Zanna Bianca e Il richiamo della foresta, letti durante la mia infanzia. Scusate se è poco. Ora sono all'ultimo romanzo dello scrittore, Il Vagabondo delle stelle (titolo originale The Star Rover). Si dice che Jack London durante la sua vita assumesse delle droghe ed un passaggio profetico del libro così recita "Sono certo che fanno così pure quelli che scrivono romanzi. Si drogano e la loro fantasia va a mille giri". Jack London nel libro si scaglia contro la brutalità della vita carceraria, contro il codice penale della California e quindi contro la pena di morte ed in particolare l'impiccagione e lo fa a suo dire nel 1913. Jack London conobbe il carcere solo per pochi giorni e scrisse questo romano d'evasione in cui c'è proprio tutto: crudo realismo, denuncia sociale e l'avventura. Sono sue parole queste parole scritte nere su bianco nel libro: "non mi sono mai imbattuto in una crudeltà più terribile del sistema carcerario di oggi". Ed ancora: "No, non ho alcun rispetto per la pena di morte. Si tratta di un'azione sporca, che non degrada soli i cani da forca pagati per compierla ma anche la comunità sociale che la tollera, la sostiene con il voto e paga tasse specifiche per farla mettere in atto. La pena di morte è un atto stupido, idiota, orribilmente privo di scientificità". Ascoltate la sua perorazione contro la pena di morte per impiccagione: "Se il collo della vittima si spezza in virtù del perfetto funzionamento del nodo scorsoio e della botola, nonché in virtù del calcolo perfetto della lunghezza  della corda in rapporto al peso della vittima, perchè mai si legano le braccia del condannato?" Insomma lo scrittore, si chiede come mai al condannato vengano legate le braccia, visto che i fautori dell'impiccagione sostengono che il reo muoia istantaneamente. Per evitare che il condannato allenti il nodo nel disperato tentativo di respirare. La perorazione continua: "C'è un'altra domanda che voglio porre  ai pacifici e rispettabili membri della società, la cui anima non ha mai sfiorato le fiamme dell'inferno: perchè, prima di aprirgli la botola sotto ai piedi, al condannato si cala un cappuccio nero sulla testa?" Per evitare che si scorga l'orrore sui volti delle vittime che non muoiono immediatamente. "Non sarà, cari i miei rispettabili concittadini, che questi cani da forca, questi vostri cani da forca hanno paura di vedere sui volti delle vittime i segni terribili di quell'orrore di cui si macchiano al vostro posto, su mandato nostro e vostro?" Queste domande Jack London dice di farle proprio a coloro che dicono di essere seguaci di Cristo.

Non ho versato lacrime quando il 30 dicembre 2006 Saddam Hussein è stato impiccato per crimini contro l'umanità, ma ho colto una illogicità manifesta nel condannarlo a morte per crimini contro l'umanità, giustiziandolo con l' impiccagione. La pena di morte non è una pena. Si contesta l'omicidio per commetterne un altro, egualmente arbitrario.
La tortuna della cella d'isolamento, la fame, la sete, le percosse da parte di secondini perfidi e vendicativi disegnano perfettamente quella condizione, che per certi versi persiste nel nostro attuale sistema carcerario sotto la veste dell'sovraffollamento carcerario. In otto in una stanza da due. Anche nelle carceri si costruisce in altezza, nell'epoca dei letti a castello. Una condizione a cui non ha potuto sopravvivere una foglia debolissima e già priva di linfa vitale, Stefano Cucchi.  
Una immagine può essere scioccante, ma non può esserlo più della verità nuda e cruda. Queste sono le foto scattate al cadavere di Stefano Cucchi, tossicodipendente con altre patologie finito nel sistema carcerario con l'accusa di spaccio. Il volto tumefatto, un occhio rientrato, la mascella fratturata. Pubblicare queste foto come quelle di Federico Aldovrandi è l'unico modo per gridare la verità, di fronte alle mistificazioni di vergognosi politici, uno per tutti nella vicenda Carlo Giovanardi, che disse che Stefano Cucchi era morto perchè "anoressico, drogato e sieropositivo". L'ipocrita grida scandalizzato alla pubblicazione di queste foto, non alle parole di questo pseudo onorevole Giovanardi. Quella di Stefano è innanzitutto una storia di diritti negati che si è consumata in appena una settimana. Se la droga è già una condanna, trova la propria apoteosi nell'attuale sistema carcerario.
Secondo i magistrati della procura di Roma, la morte di Stefano Cucchi sarebbe conseguente all' «abbandono di persona incapace»: questo profilerebbe una accusa nei confronti dei medici e infermieri del Pertini, più grave dell'omicidio colposo, sanzionabile fino ad 8 anni di reclusione mentre il colposo è cinque anni. Nel capo di imputazione i pm scrivono che i medici e gli infermieri in servizio dal 18 ottobre al 22 ottobre dello scorso anno «abbandonavano Stefano Cucchi del quale dovevano avere cura» in quanto «incapace di provvedere a se stesso». In particolare il giovane «era affetto da politraumatismo acuto, con bradicardia grave e marcata, alterazione dei parametri epatici» e «segni di insufficienza renale». Una situazione, secondo i magistrati, che lo poneva «in uno stato di pericolo di vita» e che quindi «esigeva il pieno attivarsi dei sanitari» che invece «omettevano di adottare i più elementari presidi terapeutici e di assistenza che nel caso di specie apparivano doverosi e tecnicamente di semplice esecuzione e adottabilità e non comportavano particolari difficoltà di attuazione essendo peraltro certamente idonei a evitare il decesso del paziente» (Fonte Corriere)

La schiena di Stefano Cucchi fratturata all’altezza del coccige.

Torno ad occuparmi strettamente del libro, anche se è proprio leggendolo che ho pensato al caso di Stefano Cucchi.  Jack London è un genio nel cercare di trasmettere con rabbia a quelli che chiama "suoi concittadini, immersi negli agi" la sordità del sistema carcerario, una insensibilità e indifferenza, dove non entra l'amore vero di Gesù. La tortura crea il vagabondo tra le stelle. In particolare nel libro la sofferenza la induce l'utilizzo della camicia di forza sui detenuti. La sofferenza spinge il vagabondo a camminare tra le stelle in cerca delle formule del cosmo, degli arcani segreti dell'universo, il sapere infinito. La tortura del regime carcerario spinge all'orgia dell'immaginazione, simile a quella che gli uomini sperimentano nei sogni indotti da una droga, o nel delirio, o in uno stato di pura e semplice sonnolenza. Ora vi cito il passo più bello del libro "È la vita a costituire l'unica realtà e il vero mistero. La vita è molto di più che semplice materia chimica, che nelle sue fluttuazioni assume quelle forme elevate che ci sono note. La vita persiste, passando come un filo di fuoco attraverso tutte le forme prese dalla materia. Lo so. Io sono la vita. Sono passato per diecimila generazioni, ho vissuto per milioni di anni, ho posseduto numerosi corpi. Io, che ho posseduto tali corpi, esisto ancora, sono la vita, sono la favilla mai spenta che tuttora divampa, colmando di meraviglia la faccia del tempo, sempre padrone della mia volontà, sempre sfogando le mie passioni su quei rozzi grumi di materia che chiamiamo corpi e che io ho fuggevolmente ho abitato. [...] La materia è la grande illusione. La materia, cioè, si manifesta nella forma e la forma è un fantasma. [...] Lo spirito è l'unica realtà destinata a durare. Io sono spirito, e sono io che duro." Ed ancora: "La mente...solo la mente sopravvive. La materia fluisce, si solidifica, fluisce di nuovo, le forme che essa assume sono sempre nuove. Poi di disintegrano in quel nulla eterno donde non vi è ritorno.[...] lo spirito è indistruttibile."


Un video dove ho recitato il passo appena proposto di Jack London.
Il Vagabondo delle stelle è ambientato per la maggior parte della propria narrazione nel penitenziario di stato di San Quintino, a Point Quentin in California, a nord della città di San Francisco.

Scrive Jack London: "Pativamo sofferenze atroci. Le nostre guardie, che è come dire i vostri cani da guardia, cari i miei concittadini, erano degli autentici bruti. L'ambiente in cui vivevamo faceva ribrezzo, il cibo era sporco, monotono, poco nutriente. Solo degli essere umani potevano sopravvivere, per mera forza di volontà, ad una dieta così sbilanciata." La critica dello scrittore al sistema carcerario è spesso ironica e pungente "Le celle di isolamente non sono riscaldate: sarebbe davvero immorale proteggere i detenuti dall'inclemenza degli elementi."
Nel libro la singola vita di una persona viene collocata all'interno di un processo più ampio e metafisico dell'intera umanità: "Come avviene per qualsiasi essere vivente, anch'io sono il risultato di un processo di crescita. Non ho avuto inizio quando sono nato o, addirittura, nel momento in cui sono stato concepito. La mia crescita ed il mio sviluppo sono l'esito di un numero incalcolabile di millenni. Tutte le esperienze fatte nel corso di queste e di infinite altre esistenze hanno per gradi dato forma a quell'insieme - possiamo chiamarlo anima o spirito - che è il mio io. Non capite? Io sono tutte queste vite. La materia non ricorda, lo spirito sì. Ed il mio spirito altro non è che la memoria delle mie infinite incarnazioni." Per Jack London "ognuno di noi, ogni essere umano che oggi abiti il pianeta, reca effettivamente dentro di sé la storia immarcescibile della vita fin dal momento in cui essa ebbe inizio. È una storia scritta  nei tessuti e nelle ossa, in funzioni e organi, nelle cellule cerebrali e nello spirito, in tutta una serie di bisogni ed impulsi atavici che attengono tanto al mondo fisico che a quello psichico."


Jack London, 1902 circa.
Lo scrittore ammonisce il lettore nel non dimenticare ciò che è stato: "Sono io quell'uomo, ne sono il risultato, ne sono il compendio, sono il bipede implume che venne su dal fango, creando l'amore e la legge dall'anarchia di quella feconda esistenza che nella giungla lanciava le sue grida e le sue urla. Sono io tutto ciò che quell'uomo era e quanto divenne in seguito. Mi vedo mentre passo con dolore da una generazione all'altra, cacciando e uccidendo pesci e selvaggina, creando campi là dove c'era la foresta, mi vedo mentre fabbrico rozzi utensili di pietra e di osso, costruisco case di legno, copro i tetti con foglie e paglia, trasformo erbe e radici selvatiche nei precursori del riso, del miglio, del grano, dell'orzo e di altri cibi squisiti, imparo ad arare il suolo, a seminare, a fare il raccolto, a immagazzinare, a utilizzare le fibre delle piante e a trasformarle in fili per tesserne indumenti, sì, mi vedo mentre metto a punto sistemi di irrigazione, o lavoro i metalli, apro vie al commercio e mercati, costruisco imbarcazioni, individuo rotte di navigazione, mi vedo mentre organizzo la vita di un villaggio, poi unisco un villaggio all'altro fino a formare singole tribù, poi unisco una tribù all'altra fino a farle divenire nazioni, sempre teso alla ricerca delle leggi che governano le cose e dando agli essere umani leggi che consentono loro di vivere insieme e in amicizia e così uniti configgere e distruggere tutte le creature viscide, urlanti e striscianti che potrebbero distruggerli."
Jack London elegge inoltre l'amore quale esperienza più sublime della vita: "Ciò nonostante, se rifletto su tutto questo con animo sereno, giungo alla conclusione che la cosa più importante di tutta la vita, di tutte le vite, per me e per tutti gli uomini, fino a quando le stelle si sposteranno nel firmamento e non si arresterà il continuo mutamento dei cieli, è stata, è e sarà la donna, più importante di ogni nostra fatica o impresa, più grande d'ogni parto della fantasia e dell'invenzione, più grande di qualsiasi battaglia, di qualsiasi osservazione delle stelle, più grande di qualsiasi mistero..la cosa più grande di tutte è stata la donna. [...] Stretto tra le sue braccia ho dimenticato le stelle. [...] E posso affermare, in conclusione, che non ho mai conosciuto follia più dolce e intensa di perdermi nella bellezza e nel profumato oblio dei suoi capelli. [...] Le stelle possono mutare il loro corso, i cieli possono trarci in inganno, ma la Donna resta per sempre, splendente di luce, eterna, come me, al di là di ogni maschera e di ogni avventura, l'uomo unico, il suo compagno."



Il cottage dove Jack London risiedeva e scrisse tra il 1905 e l'anno della sua morte il 1916. Si trova tuttora in California, nella valle di Sonoma che lo scrittore scelse per i suoi paesaggi incantati. La proprietà di Jack London e della sua fedele compagna Charmian, chiamata anche Beauty Ranch, era articolata in diverse casette inserite in un contesto amenico ed un laghetto; ora la proprietà è un parco protetto su esplicita volontà della moglie Charmian che volle che venisse preservata in memoria di Jack London e dei suoi lavori: il "Jack London State Historic". Il sito web ufficiale del parco è il seguente  http://www.parks.ca.gov/?page_id=478 ; “All I wanted,” disse Jack London, “was a quiet place in the country to write and loaf in and get out of Nature that something which we all need, only the most of us don’t know it.Tra le casette richiamate, si erigono anche le affascinanti e misteriose rovine di quello che fu la casa sogno di Jack London e della moglie Charmian (London's dream house), purtroppo distruttasi in un incendio nel 1913:  WOLF HOUSE
Le rovine della Casa del Lupo di Jack London immersa negli eucalipti. La sua casa sogno. Jack London scrive nel Vagabondo delle stelle: "Ho davanti agli occhi la fattoria dei miei sogni, alla quale vorrei tanto potermi dedicare per una intera esistenza. La mia fattoria! I prati di erba medica, il florido bestiame Jersey, gli alti pascoli, e ancora più su le capre d'angora che brucano i cespugli, dissodando il terreno!"
Il vagabondo delle stelle termina con queste parole "la morte non esiste, la vita è spirito, e lo spirito non può morire. [...] Solo lo spirito, nella sua ascesa verso la luce, resiste e continua a screscere su se stesso in virtù di successive e infinite incarnazioni. Che cosa sarò quando tornerò a vivere? Chissà. Chissà..."

Questo è un libro da leggere. Questo libro non ha eguali nella letteratura. Potrei giurare che sia il libro più bello che abbia mai letto, ma farei un torto ad altre intense emozioni; c'è una cosa che voglio dire prima di chiudere questo post; mi sono ritrovato nel libro quando Jack London racconta di come si sperimentano i sogni "Si, il fascino di questi sogni stava proprio nel loro essere in successione ordinata. [...] Una vera delizia, quando puoi fare tutto così, come la frustrazione di non ricordare da svegli i particolari minuti." Anche a me tanti anni fa', durante l'infanzia, capitava di fare un sogno ricorrente in cui delle forme geometriche si incastravano perfettamente in un mondo parallelo, che badate bene non era il tetris. Sperimentavo un viaggio piacevole in un mondo ordinato, di cui al risveglio ricordavo solo la beatitudine di così tanta perfezione. Probabilmente durante la notte la nostra materia grigia mette ordine all'entropia del giorno. O chissà...chissà.

lunedì 10 gennaio 2011

Gli orrori del comunismo. Cronache dal gulag


Jacques Rossi, "Com'era bella questa utopia.
Cronache dal gulag", Marsilio Editori.

Ho letto "Com'era bella questa utopia" di Jacques Rossi, un sopravvisuto in condizioni estreme ai Gulag, i campi di concentramento comunisti. Dopo averlo letto ti chiedi come mai non sia ancora stato istituito un giorno della memoria per le vittime dei regimi comunisti; allo stesso tempo ti chiedi perchè non si combatta il «negazionismo» dei crimini comunisti con la stessa forza con la quale vengono combattuti (giorno della memoria ogni 27 gennaio) quelli nazisti contro gli ebrei. Il comunismo reale al potere si trasforma, come accade in Urss, in una dittatura sanguinaria che nulla a che  vedere con gli ideali per i quali si è sentito impegnato a combattere: difesa dei più deboli, dei contadini, della classe operaia, giustizia sociale, uguaglianza, tolleranza, etc.
Secondo lo storico del comunismo Stéphane Courtois che scrisse il famoso "Il libro nero del comunismo" al movimento comunista internazionale si può attribuire la responsabilità di quasi 100 milioni di morti. Berlusconi, a cui comoda evocare sempre lo spettro di questo tipo di comunismo, ce lo ricorda in ogni campagna elettorale. Un'ombra nera incancellabile nel libro dell'Umanità.

Urss fino a 20 milioni (2 milioni si devono ai famigerati Gulag)
Cina fino a 20 milioni
Vietnam, circa 1 milione
Corea del Nord 2 milioni
Cambogia 2 milioni
Europa dell'Est fino a 1 milione
America latina 150.000
Africa quasi 2 milioni
Afghanistan 1,5 milioni

L'orrore non ha banchettato soltanto ad Auschwitz, ma anche a Kolyma in Siberia (uno dei gulag con il tasso di mortalità più alto). Miseria insopportabile, intrisa di menzogne, di ingiustizie, di delusioni, di umiliazioni, di provocazioni, di arroganza, di perversioni, di ipocrisia, di fame, di freddo e di terrore.
Il gulag, il campo di concentramento del sistema sovietico. Filo spinato e pastori tedeschi. 

I detenuti per motivi politici, imprigionati senza limiti di tempo, "nemici  del popolo", vengono sottoposti ad un regime di detenzione molto duro ed a lavori forzati pesanti. Soltanto sotto i 38 gradi sotto zero i detenuti venivano dispensati dal lavoro coatto. Esattamente come durante il Regime del Terrore durante la Rivoluzione Francese, si liquidavano i liquidatori. Dopo ogni ondata di repressione di massa, si procedeva incompresibilmente a sistematiche eliminazioni di taluni degli esecutori della precedente purga. I testimoni imbarazzanti dovevano sparire. Gli aguzzini e le vittime prima o poi ciclicamente si ritrovavano nel medesimo Gulag, perchè nel frattempo gli aguzzini erano catturati nell'ingranaggio della Grande purga.
Le celle di rigore, tre passi per il lungo e tre passi per il largo, non hanno finestre e sembra fatta apposta per contenere le esalazioni della tinozza per i bisogni, sozza e maleodorante. Gli internati rapati, tenuta zebrata, vi arrivavano con dei convogli ferroviari identici a quelli nazisti. In alcuni casi si provocavano delle menomazioni permanentio o delle amputazioni per evitare i lavori forzati.

Detenuti del lager del Mar Bianco-Mar Baltico (Belbaltlag) al lavoro nel 1932 

I Gulag, paiono dei laboratori per degli esperimenti socio-culturali e polizieschi, in vista della creazione del "perfetto cittadino sovietico". L'orrore nell'orrore è che in questi posti dimenticati da Dio, oltri ai "fessi" ci fossero anche veri e proprio criminali senza scrupoli e regolamenti di conti a non finire tra delinquenti di bande rivali; ed ecco "l'uomo vacca". L'uomo vacca è quell'individuo, scelto a sua insaputa dai compagni di una evasione che lo useranno come provvista per il viaggio; se ne berranno il sangue e se ne mangeranno i reni. I delinquenti più anziani selezionano, per il ruolo di "vacca", un giovane che, ben lungi dal sospettare qualcosa, è ben contento di essere in compagnia dell'elite della malavita in un progetto d'evasione. I Gulag pertanto come enormi camerate erano consegnate agli equilibri di potere dei boss della malavita russa.
Il libro racconta efficacemente quel mondo che anche Orwel in 1984 seppe descrivere senza pari. Scrive Jacques Rossi: "Poco per volta, presi coscienza che le idee comuniste, così seducenti, erano di fatto illusioni irrealizzabili. E che coloro che si erano impegnati a realizzarle dovevano ricorrere inevitabilmente all'inganno, cosa che implicava obbligatoriamente la censura, in definitiva l'instaurazione di un terrore di Stato. Il primo Stato operaio e contadino del mondo, la speranza di tante anime belle, divenne il Paese della menzogna totale.

Una baracca con le donne in un Gulag.

venerdì 7 gennaio 2011

Angelo Calianno: "L'uomo bianco che mentiva nel Paese più ospitale della Terra"


Angelo Calianno nel villaggio di Niafunké, nel Mali in Africa. Classe 1979, profondo conoscitore del continente nero, fin dall'età di 18 anni ha attraversato  in lungo ed in largo paesi africani quali il Botswana, Zimbawe, Zambia, Sud Africa, Gambia, Guinea, Sierra Leone, Tunisia, Marocco, Mali, Algeria; in medioriente il Kurdistan, Palestina, Israele, Syria, Libano ed in Sud America l’Argentina, Cile e Bolivia. L’Europa ovviamente se l’era bevuta già a colazione. Lavora come tour director e contemporaneamente scrive come freelance per Peace Reporter. Notevole il suo reportage da una terra maledetta "Lettere dalla Palestina" ed il racconto di una avventura in solitaria nel parco del Matese, completamente immerso nella natura.  

Il racconto che segue è stato scritto da Angelo Calianno ed è stato ritenuto meritevole di pubblicazione dai docenti della Scuola del viaggio e quindi pubblicato nel 2010 nel libro "Partire" edito da A. Vallardi.
Da dove vieni?
Sierra Leone…
Sierra Leone? E cosa facevi lì? Perché hai scelto quel posto? Quanto tempo ci sei stato?
Dovresti vederla, l’Africa, risposi.

Due mesi prima.
Conoscevo il mondo, o almeno pensavo di conoscerne parte di esso.
Avevo visto già molti paesi Africani, ero stato presente durante la guerra civile in Zimbabwe, avevo attraversato le distese della savana del Botswana, partecipato alle sommosse campesine in Bolivia, ero in quella fase dell’esistenza, in cui pensi che il tuo posto sia solo in viaggio. Ero in quel momento in cui, ci si sente come un satellite, in cui si può essere qualsiasi tipo di persona, purché non complice delle malefatte del mondo.
Eppure nessuna delle esperienze precedenti mi avrebbe preparato alla Sierra Leone, io non so se un viaggio possa davvero portare alla maturità o possa cambiare la vita. Non credo che le persone cambino davvero mai. Ma so che esistono paesi i quali  risvegliano parti di noi assopite o troppo represse, esistono persone che con la loro esistenza, diventano i nostri maestri più importanti.
In Sierra Leone ci arrivai per caso, ero in Gambia quando, l’incontro con un contrabbandiere di diamanti ed un ex capitano della SAS inglese, che guidava elicotteri per una compagnia di estrazione mineraria, mi incuriosirono su questo paese.
Che fine aveva fatto la Sierra Leone dopo la guerra che per 10 anni l’aveva dilaniata? Perché era sparita dai satelliti dell’informazione?
Tutte domande irresistibili, che si mischiano ai racconti magici e suggestivi dei sierraleonesi lontani da casa, che vorrebbero tanto tornarci.
“Benvenuti nel paese più ospitale del mondo”, un murale al porto di Freetown mi accolse così. Quale disegno c’è nella povertà? Nella disgrazia? Chi decide quali posti devono essere tormentati da guerre e carestie mentre gli altri si godono la bella vita? In Africa questo accento è più marcato, perché le enormi ricchezze e bellezze della terra, si accompagnano quasi sempre a guerre intestine causate dall’avidità occidentale.
La Sierra Leone con i 30,000 mutilati, ne è solo un esempio.
“Io sono stato fortunato, mi hanno tagliato solo una mano” racconta Samiel parlando del periodo in cui c’erano i ribelli del RUF. “Mi hanno detto, hai la faccia simpatica, ti toglieremo solo la mano o un piede, a molti amici è andata peggio, e allora gli veniva tolto un braccio e una gamba a colpi di machete”.
Questa è solo una delle storie del paese più ospitale del mondo. Raccontata da Samiel e dai suoi amici con una naturalezza impressionante. Sono storie che farebbero tremare il più cinico dei cuori, immagini che farebbero finire il cielo dall’altro capo del mondo, se non fossimo in Africa.
Dopo alcuni giorni nella capitale Freetown, decido di ripartire, addentrarmi verso est, verso il confine con la Guinea.
Il viaggio, splendido quanto duro, su logore panche di legno messe come sedili in un vecchio scuolabus inglese, ci portò tra frutta e noccioline all’altro capo della nazione, dove l’umidità delle foreste si fa opprimente, dove l’unico uomo bianco che si intravede è qualche missionario, dove la gente ha bisogno di fermarti la mattina al mercato, per raccontarti la sua storia.
“Ho viaggiato molto nella mia vita: Senegal, Marocco, ho studiato anche l’arabo a Taroudant, ma nessun posto è come Kabala”. Kabala è una città vicino al confine con la Guinea, dove la terra rossa Africana si mischia con i cieli puliti senza elettricità ed il verde delle foreste.
La frutta è più fresca, la persone passano i pomeriggi a chiacchierare, sorseggiando un imbevibile intruglio, distillato di foglie di palma, e fumando al fresco, nelle ore più calde.
Kabala sembrava il posto migliore per ripararmi dai troppi racconti di guerra e mutilazioni, caduti sulle mie piccole spalle da europeo.
Ma i racconti non hanno una pausa, hanno un luogo e un momento ben preciso, questo era quel momento, che io fossi pronto o meno. Ma i racconti non fanno pausa, hanno un luogo e un momento ben preciso per arrivare: questo era il momento, che io fossi pronto oppure no. “I caschi blu dell’Onu, che in teoria avrebbero dovuto difenderci, qui venivano dal Bangladesh, nazione più povera al mondo allora e preceduta solo…dalla Sierra Leone. I soldati quando arrivarono con la loro politica di non intervento, si limitarono a guardare quello che i ribelli del Ruf facevano a questa gente. Loro se ne stavano al riposo nella nostra casa, violentando le donne e facendo razzia dei cibi che trovavano. Ma il decidere di non intervenire, non è già una presa di posizione ben precisa?". Questo mi racconta uno dei padri missionari da 25 anni in Sierra Leone.
La sera ogni tanto portava un vento fresco che veniva da chissà dove fino a qui, lontano dal mare e dalle montagne. Si vedevano poche luci durante le mie passeggiate notturne, erano bagliori di piccoli cellulari di alcuni ragazzi, che servivano ad illuminare un po’ la strada. Ogni tanto si diffondeva una musica di una radiolina a batterie, unico mezzo di connessione con un mondo che ha dimenticato alcune delle sue terre, o se ne ricorda solo nel momento del bisogno.
Un predicatore a Freetown rivolgendosi ad alcuni bianchi disse:
“E voi che pensate di essere al sicuro, arriverà il vostro momento! Perché un giorno il vostro mondo finirà, e quando avrete perso le vostre comodità e non saprete più come fare, verrete a farvi insegnare la sopravvivenza da noi, che in queste condizioni abbiamo sempre vissuto. E allora forse potremo essere fratelli, oppure ancora una volta, ve ne andrete, non lasciando altro che morti e terra bruciata, perché, l’uomo bianco mente”.
L’uomo bianco mente, questa frase non l’ho più dimenticata.
In pochi gironi a Kabala diventai una specie di personaggio. Mentre giravo per il mercato la gente mi fermava per chiedermi una chiacchierata, informazioni sull’Italia, qualche tiro con il pallone, per bere un distillato di vino di palma, alcolicissimo, non certo la bibita ideale con 40 gradi all’ombra e l’80 % di umidità.
Diventai così famoso che, in occasione di una gara di atletica, consegnai io i premi.
Con affetto Kabala mi strinse nel suo cuore, i padri missionari mi offrivano pranzi gustosi con cibi africani cucinati all’Italiana, i ragazzi giocavano a calcio; chi era stato meno fortunato durante la guerra e aveva perso una gamba o un braccio, mi raccontava la sua storia, facendosi spingere la rudimentale sedia a rotelle di legno su per un’altura di sabbia.
Una delle principali regole tra viaggiatori dice di lasciare un luogo nel momento in cui ci si affeziona troppo. Perché quel posto potrebbe non lasciarci partire mai più, e le cose da fare ed i posti da vedere erano e sono ancora troppi.
Il momento di lasciare Kabala era arrivato. Lo feci mettendomi in una macchina con altre 7 persone, anche se ne poteva contenere solo 4. Lo feci alla mia maniera, all’alba, non guardando i visi di chi mi salutava, facendo un inchino al luogo che mi ha accolto, uscendo di scena, almeno per il momento.
Il viaggio diventò un’altra splendida avventura: la macchina si rompe, in soccorso venne un mercante che vendeva qualsiasi cosa: dall’oro ai diamanti, dalle batterie per telefoni cellulari alla benzina.
“E tu che ci fai qui? Diamanti? Ne vuoi portare qualcuno in Europa?"
“No, sa, non vorrei avere problemi in aeroporto.”
“Con me non ne avrai, e poi ti basta pagare qualcosa.”
Ovviamente rifiutai.
I miei due mesi in Sierra Leone non si possono riassumere facilmente: le persone incontrate, le storie raccontate. Ma i miei due mesi in Sierra Leone non mi hanno reso una persona migliore. Quelle storie e quei racconti mi hanno bastonato e mi hanno lasciato amore per le persone e molti dubbi. Perché spremere una terra, usurpandola fino a quando non ci sarà più niente da estrarre?
Avrei dovuto scrivere di un viaggio che mi ha dato la maturità, maturità che non credo di aver raggiunto nemmeno dopo tutte le altre piccole grandi imprese affrontate.
Quello che però l’ Africa ci può insegnare è essere sempre gentili con il prossimo, con gli stranieri; il modo in cui venni e vengo trattato in ogni singola spedizione è qualcosa che avevamo ed abbiamo dimenticato, una benedizione che cerco di meritarmi nella vita di tutti i giorni, essendo sempre e comunque in debito verso quei luoghi.
E se mai ci saranno strade e pozioni magiche ingurgitate sotto forma di alcool o cibi esotici che ricorderò, questi saranno sicuramente quelli della Sierra Leone, “il paese più ospitale del mondo”.
“E tu”, come mi disse mister J prima di partire, “Torna a casa, racconta che la guerra è finita, racconta quanto è bella la Sierra Leone e quanto è ospitale la sua gente. Va tra la tua gente e racconta queste cose.”

Due mesi dopo all’aeroporto di Bruxelles ero l’unico ad avere addosso colori diversi, che non fossero il grigio o il nero. O forse i colori c’erano, ma dopo quelli africani, io non li vedevo più.
Una ragazza seduta accanto mi chiese: "Sierra Leone? E cosa facevi lì? Perché hai scelto quel posto? Quanto tempo ci sei stato?"
"Dovresti vederla, l’Africa", risposi, "e se riesci a passare con lo spirito intatto i primi tempi, te ne innamorerai, e vivrai le impressioni che credevi di conoscere, ripescate in una vita antica che non conoscevi. Imparerai ad essere amata ed amare un luogo come non pensavi di poter mai fare, e persino casa tua, al tuo ritorno, avrà un aspetto migliore. E dopo qualche tempo, la dimenticherai o proverai a reprimere il suo ricordo, perché troppo forte sarebbe la voglia di tornare, la voglia di mollare tutto e ripartire. Spaventosa questa voglia. Ti farebbe mentire a te stessa dicendoti che forse stai bene così, perché non c’è niente che ti manca, perché in fondo…l’uomo bianco mente.

Angelo Calianno 
 
Il racconto che segue è stato scritto da Angelo Calianno ed è stato pubblicato nel 2010 nel libro "Partire" edito da A. Vallardi.

venerdì 24 dicembre 2010

Il Vittorioso: nel "gioco delle copie" ha molti clienti, il peggio della borghesia italiana

Ho appena finito di leggere il Vittorioso. Arrivato alla quinta edizione in pochi giorni, non ho resistito. Leggibile e devo dire complessivamente piacevole. Il libro, che dà ampia voce ad uno dei giornalisti più discussi e controversi, proietta il lettore nell'ennesimo  mondo autoreferenziale, percorso continuamente dal brivido della vendita e dal "gioco delle copie"; in questo gioco, ecco comparire anche la moglie di Stefano Lorenzetto, indispettita per la mancata pubblicazione sul Il Giornale, dove lavora il marito, della notizia della nascita del loro secondogenito. Stefano Lorenzetto a quel punto, dodici mesi dopo la nascita, si prese una sorta di "rivincita" comprando sullo stesso giornale una inserzione a pagamento in cui si festeggiava il figlio di un anno. Questo episodio è la spia di come in determinati ambienti, come le redazioni dei giornali, si creino dei mondi paralleli autoreferenziali, dove a furia di coltivare il proprio Ego e di sentirsi degli Dei, diventa una questione di vita e di morte che un giornale riporti la notizia della nascita del figlio di un proprio dipendente. Chi se ne frega.
"Bisogna che ci inventiamo qualcosa" sospirava Vittorio Feltri, ossessionato dal grafico delle vendite. Vendere, vendere, vendere. A me non pare un gioco delle copie ma piuttosto una malattia delle copie.
Stefano Lorenzetto scrive: "La spregiudicatezza di Feltri nel fare i giornali l'ho sempre vista coniugata a un fiuto eccezionale per i fatti destinati a diventare eventi e a una cavalleresca noncuranza per le convenienze di schiaramento. Quello che sente di dover fare, fa. Non gl'importa nulla dell'editore, del Palazzo, del costume prevalente, del giudizio dei colleghi: il suo pensiero fisso è rivolto solo al lettore, il suo unico padrone."
Ma io allora mi chiedo; se Maurizio Costanzo negli ultimi sussulti della sua carriera di giornalista creava alla domenica delle arene dove si potessero insultare ed aggredire i concorrenti del Grande Fratello, ottenendo quel "picco" d'ascolto che lo potesse appagare e farlo bofonchiare compiaciuto, non è che quella che il Lorenzetto chiama "spregiuticatezza di Feltri" altro non sia che la solita tecnica aggressiva, mistificatrice e volgare, per creare quella violenza,  quello spernacchiamento nella titolazione, che piace da sempre ai lettori frustrati e che è funzionale solo ad aumentare le vendite a discapito della propria deontologia professionale e di una qualche ricerca di verità e virtù?  A Feltri piace definirsi in "bega con mezzo mondo" e lui stesso riferendosi ai bilanci risanati, ammette che "per sistemare i conti devi fare del male". Sono parole di Vittorio Feltri: "Ho giocato sporco, lo ammetto" riferendosi all'utilizzo di videocassette porno di Moana Pozzi per aumentare la tiratura delle copie. Sono le stesse persone che in Italia hanno il coraggio di indignarsi per le violenze createsi durante i movimenti studenteschi. Per aumentare le vendite del suo giornale Vittorio Feltri deve a suo dire fare male, gli studenti per riprendersi un futuro, a loro negato, non dovrebbero fare male.
Ecco, inoltre il conio di nuovi concetti, quali il killeraggio mediatico ed il dossieraggio. In fondo Vittorio Feltri guadagna sul venduto. A furia di calunniare arriva a guadagnare 750.000 euro lordi l'anno. Addirittura Belpietro, arriva a dichiarare pubblicamente di aver detto battute al vetriolo attribuibili in verità a Vittorio Feltri, vedi il caso del trattamento riservato al giornalista Lucio Lami; è la gara di chi si sente orgoglioso e vuole rivendicare di essere stato il primo a gettare merda, invece che inchiostro. Io ci vedo solo la vergogna di una parte del giornalismo italiano.
Vittorio Feltri ha in comune con Berlusconi quella semplicissima e banale teoria politica che vedrebbe Mani Pulite aver deliberatamene sbaragliato il pentapartito per lasciare volutamente ai comunisti la strada libera per vincere le elezioni, per mancanza di avversari. Entrambi asseriscono che in quel frangente, Berlusconi scese in campo per salvare la democrazia. Imbarazzante in seguito il trattamento del Il Giornale di Vittorio Feltri nei riguardi di Antonio Di Pietro, fino alle scuse ed alla transazione finanziaria, episodi che mineranno per un breve periodo il rapporto tra Vittorio Feltri ed Il Giornale della famiglia Berlusconi.
Mi son trovato d'accordo con Vittorio Feltri soltanto quando asserisce che al giorno d'oggi chiunque vada a comprare il giornale all'edicola ha la sensazione d'avere fra le mani il quotidiano di due giorni prima, talmente ormai le persone sono bombardate da notizie in tempo reale. Condivido il suo essere un animalista convinto. Per il resto, aveva ragione Indro Montanelli a dire "Feltri asseconda il peggio della borghesia italiana. Sfido che trova i clienti." Già, uno che tiene un busto di Benito Mussolini nel suo ufficio, non può che assecondare il peggio della borghesia italiana.

Montanelli e Feltri a confronto.

giovedì 25 novembre 2010

Alluvione in Veneto? C'è la soluzione.



L'alluvione in Veneto? C'è una soluzione. Se tutti gli amministratori ed i politici che governano il territorio, ed i cittadini che li votano, avvessero letto "Il paesaggio come teatro" di Eugenio Turri, io credo che la smetteremmo di piangere lacrime di coccodrillo stupendoci perchè dopo qualche giorno di pioggia ci ritroviamo ovunque nel Veneto, ma non solo, in uno scenario da Diluvio Universale.



Leggerete infatti in questo libro rivelatore di verità come nel Veneto imperversava uno slogan: ‘una fabbrica per ogni campanile’. L’economia industriale, capitalistica, nelle fasi più eccitate del ‘miracolo’ non si poneva in Italia, nessun ostacolo, né di tipo ecologico né di ordine culturale, producendo quelle lacerazioni nel tessuto sociale ed ambientale che se hanno fatto decollare l’Italia nei cieli del benessere, l’hanno anche distrutta nelle sue fisionomie più caratteristiche.

Il diluvio rappresentato da Michelangelo (1509) nella Cappella Sistina, Roma. Il diluvio o diluvio universale è una storia mitologica di una grande inondazione mandata da una o più divinità per distruggere la civiltà come atto di punizione divina.

lunedì 1 novembre 2010

Marsilio Editori compie 50 anni

Nel mondo dell'editoria c'è una galea veneziana, l'ammiraglia Marsilio Editori, che da 50 anni solca leggera quel mare magnum che chiamiamo cultura. È l'anniversario e per l'occasione si è tenuta una grande festa al teatro La Fenice a Venezia.


Costantinopoli si può ancora conquistare? certo se nel 2010 si chiama Sonzogno ed ha un certo che di femminile. L’editrice veneziana ha acquisito infatti la storica Sonzogno ed il suo catalogo, rilevando così uno dei più antichi e popolari marchi dell’editoria italiana. La casa editrice veneziana, partita da quel porto sicuro che diede alla storia anche il primo editore in senso moderno, Aldo Manuzio (1449-1515), percorre ora a vele spiegate rotte prima sconosciute, che potranno portare i suoi lettori verso incantevoli lidi remoti. Rimanete saldi al vostro posto. Lidi gialli come la sabbia dorata. Vele al vento verso l'ignoto. Duri ai banchi, in quel mare che è la vita.


Intervista al Prof.re Cesare de Michelis per i 50 anni della Marsilio Editori, nata il 23 febbraio 1961.
 «Far libri, stamparli, leggerli, scriverli, raccoglierli, venderli, recensirli, nella mia vita mi sembra di non aver fatto altro, come se un’ossessiva passione mi avesse travolto appena ragazzo. Eppure da sempre mi è sembrato non privo di significato farli qua, dov’ero cresciuto, nella nostra terra, magari a Venezia.

Quando cominciai lo sapevo e non lo sapevo che la Serenissima era stata la patria del libro, che proprio nell’isola aveva preso forma e si era definito all’alba del Cinquecento, quello strano mestiere che è far l’editore, grazie a Aldo Manuzio, il principe e il principio di tutta la storia dei libri.

Per questo continuo a fare libri a Venezia, come se il tempo che intanto è passato non sia bastato a cancellare una storia che ha ormai cinque secoli e più»
                                                                                 Cesare De Michelis
Le sede della Marsilio Editori, recentemente restaurata, ben visibile per chi arriva a Venezia attraversando il Ponte della Libertà, è per dirla con le parole di Cesare De Michelis «il baricentro esatto di Venezia intesa come terraferma e centro storico».

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