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domenica 3 febbraio 2008

Il Mito delle due metà


Durante il simposio, prende la parola anche il commediografo Aristofane e dà la sua opinione sull'amore narrando un mito. Un tempo - egli dice - gli uomini erano esseri perfetti, non mancavano di nulla e non v'era la distinzione tra uomini e donne. Ma Zeus, invidioso di tale perfezione, li spaccò in due: da allora ognuno di noi è in perenne ricerca della propria metà, trovando la quale torna all'antica perfezione. mi sembra che gli uomini non si rendano assolutamente conto della potenza dell'Eros. Se se ne rendessero conto, certamente avrebbero elevato templi e altari a questo dio, e dei più magnifici, e gli offrirebbero i più splendidi sacrifici. Non sarebbe affatto come è oggi, quando nessuno di questi omaggi gli viene reso. E invece niente sarebbe più importante, perché è il dio più amico degli uomini: viene in loro soccorso, porta rimedio ai mali la cui guarigione è forse per gli uomini la più grande felicità. Dunque cercherò di mostrarvi la sua potenza, e voi fate altrettanto con gli altri. Ma innanzitutto bisogna che conosciate la natura della specie umana e quali prove essa ha dovuto attraversare. Nei tempi andati, infatti, la nostra natura non era quella che è oggi, ma molto differente. Allora c'erano tra gli uomini tre generi, e non due come adesso, il maschio e la femmina. Ne esisteva un terzo, che aveva entrambi i caratteri degli altri. Il nome si è conservato sino a noi, ma il genere, quello è scomparso. Era l'ermafrodito, un essere che per la forma e il nome aveva caratteristiche sia del maschio che della femmina. Oggi non ci sono più persone di questo genere. Quanto al nome, ha tra noi un significato poco onorevole. Questi ermafroditi erano molto compatti a vedersi, e il dorso e i fianchi formavano un insieme molto arrotondato. Avevano quattro mani, quattro gambe, due volti su un collo perfettamente rotondo, ai due lati dell'unica testa. Avevano quattro orecchie, due organi per la generazione, e il resto come potete immaginare. Si muovevano camminando in posizione eretta, come noi, nel senso che volevano. E quando si mettevano a correre, facevano un po' come gli acrobati che gettano in aria le gambe e fan le capriole: avendo otto arti su cui far leva, avanzavano rapidamente facendo la ruota. La ragione per cui c'erano tre generi è questa, che il maschio aveva la sua origine dal Sole, la femmina dalla Terra e il genere che aveva i caratteri d'entrambi dalla Luna, visto che la Luna ha i caratteri sia del Sole che della Terra. La loro forma e il loro modo di muoversi era circolare, proprio perché somigliavano ai loro genitori. Per questo finivano con l'essere terribilmente forti e vigorosi e il loro orgoglio era immenso. Così attaccarono gli dèi e quel che narra Omero di Efialte e di Oto, riguarda gli uomini di quei tempi: tentarono di dar la scalata al cielo, per combattere gli dèi. Allora Zeus e gli altri dèi si domandarono quale partito prendere. Erano infatti in grave imbarazzo: non potevano certo ucciderli tutti e distruggerne la specie con i fulmini come avevano fatto con i Giganti, perché questo avrebbe significato perdere completamente gli onori e le offerte che venivano loro dagli uomini; ma neppure potevano tollerare oltre la loro arroganza. Dopo aver laboriosamente riflettuto, Zeus ebbe un'idea. "lo credo - disse - che abbiamo un mezzo per far sì che la specie umana sopravviva e allo stesso tempo che rinunci alla propria arroganza: dobbiamo renderli più deboli. Adesso - disse - io taglierò ciascuno di essi in due, così ciascuna delle due parti sarà più debole. Ne avremo anche un altro vantaggio, che il loro numero sarà più grande. Essi si muoveranno dritti su due gambe, ma se si mostreranno ancora arroganti e non vorranno stare tranquilli, ebbene io li taglierò ancora in due, in modo che andranno su una gamba sola, come nel gioco degli otri." Detto questo, si mise a tagliare gli uomini in due, come si tagliano le sorbe per conservarle, o come si taglia un uovo con un filo. Quando ne aveva tagliato uno, chiedeva ad Apollo di voltargli il viso e la metà del collo dalla parte del taglio, in modo che gli uomini, avendo sempre sotto gli occhi la ferita che avevano dovuto subire, fossero più tranquilli, e gli chiedeva anche di guarire il resto. Apollo voltava allora il viso e, raccogliendo d'ogni parte la pelle verso quello che oggi chiamiamo ventre, come si fa con i cordoni delle borse, faceva un nodo al centro del ventre non lasciando che un'apertura - quella che adesso chiamiamo ombelico. Quanto alle pieghe che si formavano, il dio modellava con esattezza il petto con uno strumento simile a quello che usano i sellai per spianare le grinze del cuoio. Lasciava però qualche piega, soprattutto nella regione del ventre e dell'ombelico, come ricordo della punizione subìta. Quando dunque gli uomini primitivi furono così tagliati in due, ciascuna delle due parti desiderava ricongiungersi all'altra. Si abbracciavano, si stringevano l'un l'altra, desiderando null'altro che di formare un solo essere. E così morivano di fame e d'inazione, perché ciascuna parte non voleva far nulla senza l'altra. E quando una delle due metà moriva, e l'altra sopravviveva, quest'ultima ne cercava un'altra e le si stringeva addosso - sia che incontrasse l'altra metà di genere femminile, cioè quella che noi oggi chiamiamo una donna, sia che ne incontrasse una di genere maschile. E così la specie si stava estinguendo. Ma Zeus, mosso da pietà, ricorse a un nuovo espediente. Spostò sul davanti gli organi della generazione. Fino ad allora infatti gli uomini li avevano sulla parte esterna, e generavano e si riproducevano non unendosi tra loro, ma con la terra, come le cicale. Zeus trasportò dunque questi organi nel posto in cui noi li vediamo, sul davanti, e fece in modo che gli uomini potessero generare accoppiandosi tra loro, l'uomo con la donna. Il suo scopo era il seguente: nel formare la coppia, se un uomo avesse incontrato una donna, essi avrebbero avuto un bambino e la specie si sarebbe così riprodotta; ma se un maschio avesse incontrato un maschio, essi avrebbero raggiunto presto la sazietà nel loro rapporto, si sarebbero calmati e sarebbero tornati alle loro occupazioni, provvedendo così ai bisogni della loro esistenza. E così evidentemente sin da quei tempi lontani in noi uomini è innato il desiderio d'amore gli uni per gli altri, per riformare l'unità della nostra antica natura, facendo di due esseri uno solo: così potrà guarire la natura dell'uomo. Dunque ciascuno di noi è una frazione dell'essere umano completo originario. Per ciascuna persona ne esiste dunque un'altra che le è complementare, perché quell'unico essere è stato tagliato in due, come le sogliole. E' per questo che ciascuno è alla ricerca continua della sua parte complementare. Stando così le cose, tutti quei maschi che derivano da quel composto dei sessi che abbiamo chiamato ermafrodito si innamorano delle donne, e tra loro ci sono la maggior parte degl adulteri; nello stesso modo, le donne che si innamorano dei maschi e le adultere provengono da questa specie; ma le donne che derivano dall'essere completo di sesso femminile, ebbene queste non si interessano affatto dei maschi: la loro inclinazione le porta piuttosto verso le altre donne ed è da questa specie che derivano le lesbiche. I maschi, infine, che provengono da un uomo di sesso soltanto maschile cercano i maschi. Sin da giovani, poiché sono una frazione del maschio primitivo, si innamorano degli uomini e prendono piacere a stare con loro, tra le loro braccia. Si tratta dei migliori tra i bambini e i ragazzi, perché per natura sono più virili. Alcuni dicono, certo, che sono degli spudorati, ma è falso. Non si tratta infatti per niente di mancanza di pudore: no, è i loro ardore, la loro virilità, il loro valore che li spinge a cercare i loro simili. Ed eccone una prova: una volta cresciuti, i ragazzi di questo tipo sono i soli a mostrarsi veri uomini e a occuparsi di politica. Da adulti, amano i ragazzi: il matrimonio e la paternità non li interessano affatto - è la loro natura; solo che le consuetudini li costringono a sposarsi ma, quanto a loro, sarebbero bel lieti di passare la loro vita fianco a fianco, da celibi. In una parola, l'uomo cosiffatto desidera ragazzi e li ama teneramente, perché è attratto sempre dalla specie di cui è parte. Queste persone - ma lo stesso, per la verità, possiamo dire di chiunque - quando incontrano l'altra metà di se stesse da cui sono state separate, allora sono prese da una straodinaria emozione, colpite dal sentimento di amicizia che provano, dall'affinità con l'altra persona, se ne innamoranc e non sanno più vivere senza di lei - per così dire - nemmeno un istante. E queste persone che passano la loro vita gli uni accanto agli altri non saprebbero nemmeno dirti cosa s'aspettano l'uno dall'altro. Non è possibile pensare che si tratti solo delle gioie dell'amore: non possiamo immaginare che l'attrazione sessuale sia la sola ragione della loro felicità e la sola forza che li spinge a vivere fianco a fianco. C'è qualcos'altro: evidentemente la loro anima cerca nell'altro qualcosa che non sa esprimere, ma che intuisce con immediatezza. Se, mentre sono insieme, Efesto si presentasse davanti a loro con i suoi strumenti di lavoro e chiedesse: "Che cosa volete l'uno dalI'altro?", e se, vedendoli in imbarazzo, domandasse ancora: "Il vostro desiderio non è forse di essere una sola persona, tanto quanto è possibile, in modo da non essere costretti a separarvi né di giorno né di notte? Se questo è il vostro desiderio, io posso ben unirvi e fondervi in un solo essere, in modo che da due non siate che uno solo e viviate entrambi come una persona sola. Anche dopo la vostra morte, laggiù nell'Ade, voi non sarete più due, ma uno, e la morte sarà comune. Ecco: è questo che desiderate? è questo che può rendervi felici?" A queste parole nessuno di loro - noi lo sappiamo - dirà di no e nessuno mostrerà di volere qualcos'altro. Ciascuno pensa semplicemente che il dio ha espresso ciò che da lungo tempo senza dubbio desiderava: riunirsi e fondersi con l'altra anima. Non più due, ma un'anima sola. La ragione è questa, che la nostra natura originaria è come l`ho descritta. Noi formiamo un tutto: il desiderio di questo tutto e la sua ricerca ha il nome di amore. Allora, come ho detto, eravamo una persona sola; ma adesso, per la nostra colpa, il dio ci ha separati in due persone, come gli Arcadi lo sono stati dagli Spartani. Dobbiamo dunque temere, se non rispettiamo i nostri doveri verso gli dèi, di essere ancora una volta dimezzati, e costretti poi a camminare come i personaggi che si vedono raffigurati nei bassorilievi delle steli, tagliati in due lungo la linea del naso, ridotti come dadi a metà. Ecco perché dobbiamo sempre esortare gli uomini al rispetto degli dèi: non solo per fuggire quest'ultimo male, ma anche per ottenere le gioie dell'amore che ci promette Eros, nostra guida e nostro capo. A lui nessuno resista - perché chi resiste all'amore è inviso agli dèi. Se diverremo amici di questo dio, se saremo in pace con lui, allora riusciremo a incontrare e a scoprire l'anima nostra metà, cosa che adesso capita a ben pochi. E che Erissimaco non insinui, giocando sulle mie parole, che intendo riferirmi a Pausania e Agatone: loro due ci sono riusciti, probabilmente, ed entrambi sono di natura virile. Io però parlo in generale degli uomini e delle donne, dichiaro che la nostra specie può essere felice se segue Eros sino al suo fine, così che ciascuno incontri l'anima sua metà, recuperando l'integrale natura di un tempo. Se questo stato è il più perfetto, allora per forza nella situazione in cui ci troviamo oggi la cosa migliore è tentare di avvicinarci il più possibile alla perfezione: incontrare l'anima a noi più affine, e innamorarcene. Se dunque vogliamo elogiare con un inno il dio che ci può far felici, è ad Eros che dobbiamo elevare il nostro canto: ad Eros, che nella nostra infelicità attuale ci viene in aiuto facendoci innamorare della persona che ci è più affine; ad Eros, che per l'avvenire può aprirci alle più grandi speranze. Sarà lui che, se seguiremo gli dèi, ci riporterà alla nostra natura d'un tempo: egli promette di guarire la nostra ferita, di darci gioia e felicità. (Platone, Simposio)

domenica 23 dicembre 2007

La morte bianca: Robert Falcon Scott


Robert F. Scott's camp at the South Pole, c. 1912.
Robert Falcon Scott (Plymouth, 6 giugno 1868 – Antartide, 29 marzo 1912) è stato un marinaio e esploratore britannico.
Il tentativo di raggiungere il Polo Sud
Il 1 novembre 1902 Scott, accompagnato da Edward Wilson e da Shackleton, lasciò Hut Point per dirigersi a sud con le slitte trainate dai cani. Scott, nell'erronea convinzione che il terreno sarebbe stato pianeggiante e agevole da percorrere, aveva previsto dei quantitativi di razioni alimentari molto ridotti. La spedizione incontrò all'inizio bufere con caduta di neve fresca che resero difficile il cammino, al punto che i tre erano costretti a trasportare metà del loro carico per mezzo miglio e poi tornare indietro per recuperare l'altra metà. I tre commisero inoltre alcuni errori tecnici: uno di questi fu quello di spostare i cani da una muta all'altra, scatenando feroci liti e diminuendo così l'efficacia delle mute. Inoltre i cani non erano preparati per l'impresa e per le condizioni climatiche, avendo passato l'inverno al riparo a bordo della nave con pochissime uscite di allenamento. Nessuno dei tre aveva esperienza di sopravvivenza in ambienti estremi come quello antartico: si pensi che Shackleton non aveva mai montato una tenda né dormito in un sacco a pelo. Quando i tre erano già sfiniti dalla cecità da neve, dalle scarse razioni, dal clima avverso e, nel caso di Shackleton, dallo scorbuto, avvistarono le catene montuose antartiche che eliminarono le speranze di poter raggiungere il Polo. Nonostante ciò Scott decise di proseguire e solo intorno all'82° parallelo si arrese all'evidenza dell'impossibilità di proseguire. Dai suoi diari si evince che Scott attribuì l'intera colpa del fallimento ai cani e non agli errori tecnici nella preparazione. Scott, Wilson e Shackleton raggiunsero il punto più meridionale il 31 dicembre 1902, a 480 miglia dal Polo.
La spedizione Terra Nova (1910 - 1912)
Secondo Scott il raggiungimento del Polo da parte di un britannico non era importante solo per questioni di prestigio nazionale. Scott lo considerava anche un opportunità di arricchimento e di miglioramento di status per la sua famiglia. Dopo il matrimonio con la scultrice Kathleen Bruce il 2 settembre 1908 e la nascita del loro unico figlio nell'anno 1909, partì per la sua seconda spedizione nell'Antartico. Il 1 giugno 1910 la nave Terra Nova salpò da Londra alla volta dell'Antartide. Fin da subito fu chiaro a Scott che il raggiungimento del Polo sud sarebbe stato una sorta di gara con il norvegese Roald Amundsen. Entrambe le spedizioni partirono nell'ottobre 1911 dai rispettivi campi base. Ma mentre Amundsen e i suoi quattro compagni erano in viaggio con sci e cani da slitta, Scott e i suoi utilizzarono pony e motoslitte che si rivelarono ben presto difettose, nonché cani da slitta che anche stavolta nessuno sapeva condurre. La spedizione composta da Scott, Edward Wilson, Edgar Evans, Lawrence Oates e dal tenente Henry Bowers, raggiunse il Polo Sud tra il 17 e il 18 di gennaio del 1912. Ma qui la delusione fu enorme, quando i cinque si resero conto che Amundsen li aveva preceduti di diversi giorni: sul ghiaccio svettava ancora la bandiera norvegese, lasciata da Amundsen già il 14 dicembre 1911.
Amundsen con la bandiera norvegese piantata al polo sud
Purtroppo per Scott e i suoi, la migliore organizzazione della spedizione di Amundsen fu evidente anche (e soprattutto) nel durissimo viaggio di ritorno. Se infatti il norvegese era riuscito a percorrere tra le 15 e le 20 miglia al giorno (pur avendo previsto di percorrerne 30 al giorno), Scott raggiunse una prestazione massima di 13 miglia al giorno. Mentre Amundsen riuscì a rientrare al campo base senza difficoltà, per Scott e i suoi il rientro divenne ben presto una lotta disperata. In gran parte contribuirono anche le pessime condizioni meteorologiche con temperature talmente rigide che, dall'introduzione delle moderne stazioni meteo negli anni '60, furono nuovamente registrate una sola volta. Il primo che perse la vita nel corso della marcia di rientro fu Evans che si era infortunato in seguito ad una caduta ed ebbe un crollo fisico e psicologico. Poco dopo peggiorarono le condizioni di Lawrence Oates tanto da ostacolare la marcia degli altri membri della spedizione. Quando Oates si rese conto di avere poche possibilità di sopravvivenza, ma soprattutto di rappresentare un fattore di rischio per i rimanenti membri della spedizione, abbandonò volontariamente la tenda durante una tempesta di neve. Il suo corpo non fui mai ritrovato. Il gesto di Oates fu inutile. I cadaveri dei rimamenti membri della spedizione furono trovati sei mesi dopo a sole 11 miglia da un grande deposito di viveri allestito appositamente per la loro spedizione. Rimasero i loro diari nei quali descrissero nel dettaglio le sofferenze patite. É celebre la frase di Scott:
(EN) « Had we lived I should have had a tale to tell of the hardihood, endurance and courage of my companions which would have stirred the heart of every Briton. » (IT) « Fossimo sopravvissuti, avrei avuto una storia da raccontarvi sull'ardimento, la resistenza ed il coraggio dei miei compagni che avrebbe commosso il cuore di ogni inglese. »

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