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martedì 19 ottobre 2010

Salviamo SaKineh


Salviamo Sakineh: Firma l'appello

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“Un giorno il capo di una tribù nomade trovò un Kilim abbandonato all’ingresso della sua tenda. Lo prese e lo guardò attentamente e poi disse ad uno dei suoi uomini: “Trovami subito il padre della ragazza che ha tessuto questo Kilim e portamelo nella mia tenda”. Il padre fu trovato e portato nella tenda dell’ Aga che disse:” Da quel che ho capito credo che tu voglia maritare tua figlia con una persona che essa non vuole perché il suo cuore batte per un altro”. Il padre stupito rispose “Si signore, io non sono che un povero nomade e un uomo ricco ha chiesto la mano di mia figlia. Per il suo bene non ho potuto dire di no e a lui l’ho promessa. Ma mia figlia è innamorata di un giovane più povero di me. Ma!? Signore come fate voi a conoscere tutto ciò?” Il Signore mostrò il Kilim e chiese:” E’ stata tua figlia a tesserlo?” “Si Signore, riconosco il lavoro”. “E’ così, ho appreso tutto ciò attraverso il linguaggio di questo Kilim. Ti donerò dei cavalli e dei cammelli e tu potrai cominciare i preparativi del matrimonio con questo giovane. E di anche a tua figlia che lei ha ben tessuto il Kilim, ma che dovrà mettere meno verde nel rosso la prossima volta, mi stavo quasi sbagliando”.

venerdì 16 gennaio 2009

Lo specchio della vita delle donne nei Kilim

Le tesi qui riportate trovano il proprio riferimento scientifico in J.Mellaart, U. Hirsch, B. Balpinar, The Goddess from Anatolia, Eskenazi, Milano 1989
L’immagine di Penelope che tesse e disfa la propria tela è forse uno degli iconemi più volgarmente impressi nell' immaginario collettivo che rimanda ad una indomita capacità secolare della donna di superare congiunture difficili attraverso l’espediente della pazienza e di una sapiente furbizia.
Amazzone ferita (particolare) nei Musei Capitolini di Roma, l'amazzone era una« guerriera ardita, che succinta, e ristretta in fregio d'oro l'adusta mamma, ardente e furïosa tra mille e mille, ancor che donna e vergine, di qual sia cavalier non teme intoppo. » (Publio Virgilio Marone, Eneide, libro I.810-814 [orig. lat.: 491-493]. La tela di Penelope invece fu un celebre stratagemma, narrato nell'Odissea, creato da Penelope, la quale per non addivenire a nuove nozze, stante la prolungata assenza da Itaca del marito Ulisse, aveva subordinato la scelta del pretendente all’ultimazione di quello che avrebbe dovuto essere il lenzuolo funebre del suocero Laerte. Per impedire che ciò accadesse la notte disfaceva ciò che tesseva durante il giorno. Oggigiorno si cita la tela di Penelope per riferirsi ad un lavoro che non avrà mai termine.http://it.wikipedia.org/wiki/Tela_di_Penelope
Kilim è una parola turca che indica un tappeto a tessitura liscia caratterizzato da motivi decorativi strettamente legati alla cultura che li ha prodotti. Le aree geografiche per tradizione produttrici di kilim sono l’Africa Settentrionale, l’Anatolia, la Persia, il Caucaso, l’Afghanistan e l’Asia Centrale. In queste zone le tribù nomadi, perennemente in cammino per condurre al pascolo le capre e le pecore, e le popolazioni stanziali del deserto hanno dato vita a stoffe variopinte che permettessero loro di proteggersi dal caldo e dal freddo e di ripararsi dalle intemperie. Il kilim è così diventato elemento essenziale di tali popolazioni, fino a scandirne i momenti più importanti della vita, come ad esempio il matrimonio. Ancora oggi, in molte di queste zone, si producono tappeti di grande qualità e bellezza, spesso destinati al mercato occidentale.
Le filatrici e le tessitrici soprattutto orientali, già nell’antichità “prigioniere” di un lavoro che desta meraviglia per l’infinito sacrificio che richiede, essendo una attività silente poco o per niente riconosciuta e remunerata, hanno dove è stato possibile lasciato una trama di linguaggi nei Kilim, che vanno letti come dei libri per comprendere ciò che racconta la sua tessitrice. Ad esempio aggiungendo un piccolo motivo di mano sul Kilim una donna firmava la sua opera e simboleggiava se stessa oppure la giovane donna che tesseva disegni di orecchini sui suoi Kilim indicava ai genitori il desiderio di sposarsi. Il Kilim infatti nella sua interpretazione culturale più aulica ed estesa riflette la vita di colei che l’ha tessuto e la cultura del gruppo cui apparteneva; vi compaiono motivi ricorrenti legati al mondo femminile: ornamenti come gli orecchini, il pettine, il cofanetto e molti altri fino al simbolo della maternità e della fertilità della donna con il motivo “Elibelinde” (Le mani sui fianchi). Per comprendere questa simbologia occorre riferirsi agli inizi della storia dell’uomo: in tempi antichi l’uomo, in lotta per la sopravvivenza, minacciato dalla carestia e in balia degli eventi naturali, credeva che in questo universo tutto fosse vivente, considerava la terra come una madre e come la creatrice di vita.
Elibelinde ( Le mani sui fianchi ) Sicuramente il motivo più conosciuto, esso è considerato l'archetipo dei simboli raffigurati sui vecchi kilim. Viene chiamato 'mani sui fianchi', 'dea madre', 'madre terra', e così via; qualcuno vede in esso un simbolo di maternità e fertilità, altri un qualcosa di magico se non addirittura di mistico. I Kilim, opere di inestimabile valore sia come opere d’arte che come testimonianze culturali, si configurano pertanto anche come lo specchio della vita delle donne che li tessevano e dell’educazione a cui erano sottoposte al fine di prepararle ai segreti dell’adolescenza, del matrimonio, del parto e della morte; nel tramandarsi le geometrie, le tecniche, i motivi, i colori, il gruppo si garantiva la trasmissione di un antico bagaglio culturale gettando le fondamenta iconoclastiche per una proficua successione e conservazione di remoti equilibri sociali.
Il Kilim racconta nello stesso tempo i desideri e le aspirazioni della tessitrice ed anche il loro modo di intendere ed affrontare il destino; quando una donna realizza un motivo di scorpione intende con ciò allontanare l’animale stesso, e la minaccia implicita, non solo dal suo focolare ma anche dal suo villaggio e dal suo paese; la giovane donna che tesseva disegni di orecchini sui suoi Kilim indicava ai genitori il desiderio di sposarsi. In particolare la donna Turca dell’Anatolia, utilizzando immagini e disegni simbolici di tradizione secolare ha intessuto il suo mondo ed i suoi segreti sui Kilim e sui tappeti, mantenendo nascosti i significati sentimentali dei motivi riprodotti persino ai loro mariti esclusi per tradizione a tutti i riti riguardanti l’adolescenza e il parto. Il Kilim era come un diario segreto e come tale spesso non si mostrava agli estranei, motivo per cui alcune tribù nomadi non vendono e non mostrano i loro Kilim agli sconosciuti e non raccontano neanche i significati dei motivi. Tali evincimenti si palesano in particolar modo considerando una leggenda molto conosciuta presso le tribù nomadi: “Un giorno il capo di una tribù nomade trovò un Kilim abbandonato all’ingresso della sua tenda. Lo prese e lo guardò attentamente e poi disse ad uno dei suoi uomini: “Trovami subito il padre della ragazza che ha tessuto questo Kilim e portamelo nella mia tenda”. Il padre fu trovato e portato nella tenda dell’ Aga che disse:” Da quel che ho capito credo che tu voglia maritare tua figlia con una persona che essa non vuole perché il suo cuore batte per un altro”. Il padre stupito rispose “Si signore, io non sono che un povero nomade e un uomo ricco ha chiesto la mano di mia figlia. Per il suo bene non ho potuto dire di no e a lui l’ho promessa. Ma mia figlia è innamorata di un giovane più povero di me. Ma!? Signore come fate voi a conoscere tutto ciò?” Il Signore mostrò il Kilim e chiese:” E’ stata tua figlia a tesserlo?” “Si Signore, riconosco il lavoro”. “E’ così, ho appreso tutto ciò attraverso il linguaggio di questo Kilim. Ti donerò dei cavalli e dei cammelli e tu potrai cominciare i preparativi del matrimonio con questo giovane. E di anche a tua figlia che lei ha ben tessuto il Kilim, ma che dovrà mettere meno verde nel rosso la prossima volta, mi stavo quasi sbagliando”.
Umberto Galimberti nella rubrica epistolare di “D, La Repubblica delle Donne” in un articolo denominato “La trama delle donne” parla dei kilim quali “misteriosa orchestrazione di messaggi in codice, di alfabeti dimenticati, di simboli trascurati eppure fondanti quella cultura universale, da cui l'Occidente si è separato per affermare il primato della storia sulla natura, anzi della sua storia su quella primordiale cultura che concepisce la vita come unione degli opposti: la trama e l'ordito, il maschio e la femmina, il cielo e la terra, la vita e la morte. Per avere smarrito questa simbolica duale, di cui la donna è gelosa custode, noi occidentali trattiamo i kilim, le cui figure raccontano una storia di novemila anni trasmessa da madre a figlia, come semplici tappeti da calpestare. E in essi più non avvertiamo quella presenza amica che proteggeva dal vento e dalla sabbia, serviva da mensa, da letto, fungeva da spazio sociale, per discutere e chiacchierare, da culla per bambini, da paramento funebre, da luogo di preghiera, da serbatoio di segreti dove intessuti erano i sogni delle donne che la storia degli uomini ha solo trascurato e calpestato. Eppure lì, nel kilim, c'è la trama profonda del senso della storia che nascite e morti cadenzano, come vuole il ritmo della natura, che non si è mai fatta incantare dal racconto della storia nel suo incessante proferir parole di riscatto, progresso, redenzione.”
Dea madre di Çatalhüyük – KONYA. La Grande Madre è una divinità femminile primordiale, presente in quasi tutte le mitologie note, in cui si manifestano la terra, la generatività, il femminile come mediatore tra l'umano e il divino. In particolare nell’area anatolica prese il nome di Cibele (greco: Κυβέλη - Kubelē; latino: Cibelis) venerata appunto come Grande Madre, dea della natura, degli animali (potnia theron) e dei luoghi selvatici.Nell’antica Grecia, all’inizio dei tempi, in molte zone dell’Egeo, era la donna a capo della famiglia. Nella stessa mitologia greca troviamo traccia di tali usanze. Le origini del matriarcato vanno ricercate nell’antica isola di Creta e in Licia. Le amazzoni erano popolazioni composte quasi esclusivamente da sole donne organizzate senza la presenza di uomini (o comunque, la loro presenza non era rilevante, in alcun senso). Seguivano le antiche leggi telluriche del matriarcato e vedevano la convivenza tra sole donne come la più perfetta. Tale particolarità aveva avuto origine all’interno delle società guerriere, quando l’uomo era costretto a stare molto tempo lontano da casa per combattere e, di conseguenza, era la donna che doveva stare a casa e fare da capofamiglia; doveva badare al fuoco domestico, ai figli, ai campi e partecipare alle assemblee cittadine. L’uomo tornava a casa solo di tanto in tanto, in quanto era impegnato, per la maggior parte del tempo, in battaglia. In questo tipo di società nacque la ginecocrazia e la vita amazzonica, nonché l’eterismo, ovvero la pratica sessuale indifferenziata, vista solo come un sacrificio al quale era portata la donna, con l’unico scopo di dare un futuro al proprio popolo (come valeva per l’ape regina). Giorgio Pastore, Dèi del Cielo, dèi della Terra, Eremon Editore

Peraltro la maggior parte degli studiosi individua nei disegni dei kilim anatolici i simboli stilizzati dell’antica Dea Madre: di generazione in generazione le donne si sarebbero tramandate i motivi ricorrenti della loro zona. Nel 1958 l’archeologo inglese James Mellaart scoprì nella penisola anatolica a 50 km a sud-est di Konya un sito destinato a diventare celebre: Çatalhüyük. A Çatalhüyük, dove 9000 anni fa nacque la prima comunità umana di cui si abbia notizia, sembra che la donna avesse un ruolo dominante, testimoniato anche dal culto della Dea Madre, la cui figura nei manufatti artistici è spesso abbinata a simboli di potere, come leoni, avvoltoi, serpenti. Significativa a proposito la relazione che è stata individuata tra i simboli che compaiono sugli odierni kilim e gli antichi segni, legati al culto della Dea-Madre, rappresentati negli affreschi e su vari oggetti di Çatalhüyük. Secondo questa affascinante teoria quindi, le donne anatoliche avrebbero tessuto per millenni questi disegni, tramandandoli fino a noi. Testimonianza che la donna nella penisola Anatolica anticamente abbia ricoperto un ruolo di sicuro rilievo è anche attestato dal mito delle Amazzoni (in greco antico Αμαζόνες) popolo favoloso di donne guerriere della mitologia greca e da ultimo il fatto che precocemente nel 1934 la Turchia abbia riconosciuto alle donne il diritto di votare (ben prima della ‘democratica’ Svizzera che lo concesse solamente nel 1971 e dell’Italia che quasi contemporaneamente emanava invece le leggi razziali (Fonte: World Chronology of the Recognition of Women's Rights to Vote and to Stand for Election: http://www.ipu.org/wmn-e/suffrage.htm); nel 1935 furono elette delle donne al parlamento turco.

Poster di una suffragette inglese del 1905
La Battaglia delle Amazzoni (o Amazzonomachia) è un dipinto ad olio su tavola di cm 121 x 165,5 realizzato intorno al 1615 dal pittore fiammingo Pieter Paul Rubens. Attualmente è conservato presso la Alte Pinakothek di Monaco di Baviera.
Questo posto è dedicato alle donne, visto nel paese in cui vivo (fonte http://www.weforum.org/gendergap) se si considera la partecipazione e opportunità economica delle donne (cioè un'analisi dei salari, dei livelli di partecipazione al mondo del lavoro e del grado di accesso alle posizioni più qualificate; l'accesso all'educazione, sia quella di base che quella più elevata; l'influenza politica, cioè il grado di partecipazione alle strutture decisionali) l'Italia ha un risultato disastroso: numero 77 su 115, ultima dell'Unione europea se non si considera Cipro, e superata da decine di Paesi in via di sviluppo (http://www.corriere.it/Primo_Piano/Cronache/2006/11_Novembre/21/donne.shtml );
in particolare dedico idealmente questo articolo a due donne la cui storia in questi giorni mi ha impressionato: Armida Miserere che fu una delle prime donne direttrici di carcere, servitrice dello stato che per lo Stato aveva svolto i compiti più duri, sempre alla guida di istituti di pena, si uccise con un colpo di pistola alla testa nella sua abitazione annessa al carcere di Sulmona. Accanto a lei solo il suo pastore tedesco e sul letto la foto del suo compagno Umberto Mormile, educatore carcerario, ucciso in un agguato di camorra nel 1990 a Milano. Questo lutto l'aveva segnata per sempre, anche perché associato alla rabbia e all'angoscia di non aver potuto per tanti anni avere giustizia. (Fonte: http://archiviostorico.corriere.it/2003/aprile/20/uccide_direttrice_del_supercarcere_co_0_030420147.shtml )Nell'ultimo biglietto scrisse:
"Vivo un dramma interiore... Non mi bastano più la considerazione a livello sociale e istituzionale, gli apprezzamenti pubblici... Mi uccido per colpa di quelli che mi hanno rovinato la vita"




Armida Miserere.
L'altra donna a cui dedico questo post è Rachel Corrie (10 aprile 1979 – Rafah, 16 marzo 2003) è stata una attivista statunitense pacifista. Era un membro dell'International Solidarity Movement (ISM) e, come tale, aveva deciso di andare a Rafah, nella striscia di Gaza, durante l'Intifada di Al Aqsa. Fu schiacciata da un bulldozer dell'esercito israeliano che tentava di distruggere alcune case palestinesi: una morte assurda.




Rachel Corrie. Una delle sue ultime lettere strazianti alla famiglia è contenuta al seguente link http://www.lecosechenonricordi.it/rachellettera.htm In essa ad un certo punto dice "Oggi ho provato a imparare a dire Bush è un burattino" ed ancora "Sono terrorizzata per la gente di qui. Ieri ho visto un padre tenere per mano i suoi figlioletti, sotto il tiro di carri armati, torrette, bulldozer e jeep."


sabato 17 novembre 2007

Kuki Gallmann, una veneta africana, cittadina del mondo.

Tratto da un articolo a cura di sandro murtas Pubblicato il 28/08/2004

"Trasferitasi dall'Italia In Kenya negli anni '70, seguendo l'amore per Paolo Gallmann, suo secondo marito, ma anche il suo istinto e..... forse già da allora, il suo destino. Portò con sè anche Emanuele, suo figlio, e un pò di nostalgia per la campagna veneta, dove aveva passato la sua infanzia. Penso che lei abbia sempre avuto il Kenya dentro, l'amore per gli spazi sconfinati e la natura allo stato puro; infatti al suo arrivo a "Ol Ari Nyiro", scrutando oltre la casa da riassestare e vedendosi la maestosità dell'antica Rift Valley, esclamò qualcosa come: "sono a casa!" Aveva trovato ciò che stava cercando! Dal quel momento, niente l'avrebbe più sradicata da quell'"Eden", neppure le peggiori tragedie che possano capitare ad una persona : la perdita della persona che si ama e, ancor più, del proprio figlio!! Perchè "perdere l'amato compagno è un dolore atroce, ma perdere il proprio figlio è contro natura".
Paolo Gallmann morì nel 1980, in un incidente stradale, qualche mese prima della nascita di Sveva, loro figlia. Emanuele si spense tre anni dopo a soli 17 anni, nelle braccia della madre, a causa di un morso di vipera dalla quale stava estraendo il veleno; i serpenti erano la sua passione fin dal primo momento che mise piede in Kenya: una specie d'attrazione mistica e fatale! Mi piace pensare che la prima parola di swahili che Ema abbia imparato sia "nyoka"( serpente ).
Sembrerebbe la tragica fine di una storia finita, invece è soltanto l'inizio di una grande impresa, di una missione che solo la caparbietà e la forza di una grande donna aiutata dalla onnipresenza di due spiriti che l'hanno sostenuta e le danno man forte nei momenti difficili. Si, perchè Paolo ed Emanuele sono scomparsi solo materialmente, ma i loro spiriti dimorano sotto due alberi di acacia nel giardino di Kuti; gli stessi alberi simbolo della ovvero la causa per cui la famiglia Gallmann si è sempre battuta da quando è arrivata in Kenya: la salvaguardia del patrimonio naturale e faunistico e la sua coesistenza con l'uomo ed il suo progresso. Nel 1980, quando l'uccisione di rinoceronti ed elefanti divenne una grande minaccia, Paolo e Kuki fecero diventare Ol Ari Nyiro, 100 mila acri di terreno sugli altopiani kenioti, ai piedi della Grift Valley, una riserva naturalistica, intenti a preservare la vita e le bellezze del posto. Nel 1984, dopo la scomparsa di Ema, Kuki Gallmann fondò in memoria del figlio e del marito, il GMF (Gallmann Memorial Foundation), volendo dimostrare l'armoniosa coesistenza dell'uomo con la natura e la vita selvaggia; infatti nella tenuta vivono e lavorano diverse tribù indigene e trovano spazio elefanti, rinoceronti, leopardi e tantissime altre specie di animali immersi in una ricchisssima e varia vegetazione. Il GMF è oggi anche un centro studi ed educazione ambientale per i giovani kenioti che affrontano dei corsi per prepararsi a difendere l'ambiente in cui vivono. Tutto questo senza scopo di lucro! Questa donna è riuscita a superare mille ostacoli e le asperità di una terra, il Kenya, che tanto dà, ma che tantissimo pretende; è riuscita a fare di una tragedia familiare una ragione di vita, e ogni giorno onora la memoria di Paolo e Emanuele con il duro lavoro di chi ama profondamente quella terra. Dal 1997 cittadina Keniota, può contare sull'aiuto di sua figlia Sveva, oramai ventenne, e di tuuti coloro che hanno capito quanto grande e giusta è la sua impresa. Kuki Gallmann ha scritto alcuni libri, di tipo biografico, che oltre a farci conoscere la sua esistenza, ci danno una immagine reale del Kenya degli ultimi 25 anni: la vita, le persone e i fantastici paesaggi di un posto dove il tempo sembra essersi fermato. I libri sono : "Sognando l'Africa"(tradotto in 21 lingue e fonte d'ispirazione dell'omonimo film); "Notti Africane"; "Il colore del vento"; "Elefanti in giardino".

Sveva Gallman

La successiva intervista alla poetessa e scrittrice Kuki Gallmann è stata realizzata da Valentina Acava Mmaka, una giovane sociologa, che ha vissuto dalla nascita in Sud Africa.

Cara Kuki, ti ringrazio di questo incontro. Siamo sulle colline del Mukutan, davanti a noi le gole della Grande Rift Valley. Le nostre schiene appoggiate sul tronco nodoso di un'acacia della febbre gialla, è qui che vieni spesso a ricevere le suggestioni che madre Africa dispensa ai suoi "figli" e a scrivere. Invitiamo i tuoi lettori a sederci accanto nel cerchio caro alle tradizioni dei cantastorie, per ascoltare e confrontarsi.Da trent'anni vivi in Africa, in Kenya. Nei tuoi libri questa straordinaria terra è raccontata sempre, anche nei momenti di reale drammaticità, con uno sguardo positivo, come se inevitabilmente essa fosse dispensatrice di bene. Dici di aver sempre amato la scrittura. Quando hai cominciato a scrivere con l'intenzione di uscire allo scoperto e cercare il confronto con i lettori?

Il mio primo libro è stato una catarsi. Non avevo intenzione di pubblicarlo. Lo scrissi per me, per mia figlia così che potesse capire cos'era accaduto, vedere con i miei occhi un padre che non aveva conosciuto, essendo nata qualche mese dopo la sua morte, e un fratello che aveva adorato. Lo scrissi per Paolo e per Emanuele per onorare la loro memoria. Un amico inglese, editore, mi convinse a pubblicarlo. Mi disse che altri genitori forse sarebbero stati aiutati dal mio atteggiamento positivo nel reagire alle tragedie. Allora mi sembrava impossibile. Ma si è rivelato vero.

C'è qualcuno o qualcosa che ha influito sulla tua necessità di scrivere?

Sono cresciuta in una famiglia colta dove artisti, pittori e soprattutto scrittori erano di casa. Fin dalla prima infanzia, sono stata affascinata dal suono e dalla musica delle parole. Con mio padre, leggevamo poesie a due voci, momenti magici. Mia madre è una nota storica d'arte. Mio padre scriveva. Amava i viaggi nel Sahara e si occupava di archeologia.Sono estroversa, e scrivere è sempre stato il mio modo di esprimermi, e anche un rifugio. Giovanni Comisso e Goffredo Parise erano amici della mia famiglia e commensali abituali alla nostra tavola. Io ascoltavo. Non mi sfuggiva niente. Scrissi la mia prima poesia a sei anni. S'intitolava La sera.

Tu scrivi i libri in inglese. Molti scrittori, mi vengono in mente Joseph Conrad o Samuel Beckett, hanno scelto di scrivere in una lingua diversa dalla loro lingua madre. Tu come mai scrivi in inglese? Perché secondo te si fa la scelta di una lingua letteraria diversa da quella madre?

È la lingua corrente del luogo dove ho scelto di vivere ed è ricchissima di sfumature, sintetica e precisa, che spiega benissimo dettagli e nuances in una parola sola. È una lingua internazionale che si può parlare raffinatamente, come ogni altra lingua, e forse gli studi di lingue classiche del liceo mi hanno aiutata a carpirne i segreti, perché dopo tutto, le parole più belle provengono dal latino.

Lo scrittore keniota Ngugi wa Thiong'o da anni ha fatto la scelta di scrivere solo nella lingua kikuyu, accendendo una intensa discussione sulla opportunità di "abbandonare" la lingua dei colonizzatori, in quanto scrittore africano, perché portatrice di falsi valori e soprattutto incapace di rappresentare lo spirito della gente africana. Come scrittrice e osservatrice dell'attività letteraria africana, che cosa ne pensi?

È una scelta personale, certamente dettata da motivi profondi e come ogni scelta va rispettata. Ma se si vuole che ciò che si dice sia ascoltato da molti e non solo da un numero ristretto di lettori, credo che un linguaggio universale sia più efficace. Non dimentichiamoci che in Kenya ci sono 43 tribù e ognuna ha una lingua diversa. Il kikuyu è una di queste lingue ma non è la lingua nazionale del Kenya. Posso tuttavia dire che le traduzioni dei libri non sempre riescono a trasmettere con successo il senso profondo del testo, talvolta si travisano i significati o si traduce troppo alla lettera, è anche per questo motivo che io traduco personalmente in italiano tutti i miei libri. Per quanto riguarda l'esempio di Ngugi wa Thiong'o credo che politica ed estremismo non abbiano alcuna parte nell'arte dell'espressione.

La scrittura è un esercizio che richiede solitudine. L'Africa dei grandi spazi offre questa condizione ideale per chi scrive. Qual è il tuo rapporto con la solitudine?

Io vivo sola - con i miei cani - e le mie giornate sono pienissime; scrivo di notte. Amo molto "ascoltare" il silenzio come diceva Emanuele. Il silenzio in Africa è pieno di voci e la solitudine è piena di presenze.

Che cosa rappresenta per te la scrittura? Hai sempre scritto di te, dei tuoi incontri, delle tue emozioni, dei tuoi affetti. Hai mai pensato di scrivere altre esperienze, storie che abbiano per protagonisti personaggi di invenzione?

Giovanni Comisso diceva che tutti i libri - quelli buoni - sono autobiografici. Finora i miei libri sono stai raccontati in prima persona, ma ci sono anche molti personaggi nati da persone che ho incontrato, conosciuto e amato. Ho altre storie e quando verrà il tempo giusto, le racconterò.

Come nascono i tuoi libri?

Mi siedo alla mia scrivania o sotto un albero e lascio venire i ricordi. Amo raccontare e dipingere con le parole.

Hai composto anche poesie. Cosa esprimi di diverso rispetto alla narrativa quando scrivi poesia?

Immediatezza. Cogliere l'essenza di un attimo.

Chi scrive ha sempre a che fare con la memoria. Platone diceva che la memoria è come un albero sui cui rami si posano gli uccelli. L'albero è la mente e gli uccelli sono i ricordi che vanno e vengono all'albero quando meno ce l'aspettiamo, senza preavviso. Condividi questa descrizione? Qual è il tuo rapporto con la memoria?

È una descrizione bellissima, che non conoscevo e che condivido. Spesso i ricordi ci colgono impreparati, sono inevitabili. Tutto ciò che abbiamo vissuto è scritto per sempre dentro di noi e può riemergere in ogni istante.

Nella tua vita, quella che emerge dai racconti, c'è una forte presenza di simboli, di ritualità: il fuoco, il racconto, la musica sono "forze" che hai acquisito confrontandoti quotidianamente con la civiltà africana?


Può darsi.

Nei tuoi libri si parla molto di musica. Che rapporto c'è tra musica e letteratura?


La musica è evocativa, immediata. La musica classica, il flauto delle Ande, la musica veneziana del settecento sono spesso il sottofondo delle mie sere. O il concerto impeccabile delle voci della natura, che non disturba, è nobile e aiuta il fluire dei pensieri.

La memoria dell'Africa è colma di perdite e di dolori. Qual è il tuo rapporto con il dolore?

Il dolore psicologico è una reazione a una ferita del destino. Si deve vivere il dolore fino in fondo per superarlo e andare avanti, trovare uno scopo, vivere le proprie sfide fino in fondo..

Cosa ti ha insegnato l'Africa in quanto donna, madre, moglie, figlia?

Ad accettare, ad imparare le lezioni della vita, ad andare avanti.

Quali sono le ore della giornata che dedichi alla scrittura?

La notte, di solito, o le lunghe sere.

Come scrivi? (a mano, a macchina, con il computer)

Dipende da dove mi trovo. Spesso a mano e poi in un secondo momento riporto tutto sul computer.

Hai degli autori, dei "padri" e delle "madri" letterarie che ti accompagnano nella tua crescita personale e professionale?

Sì, penso alla poesia di Giovanni Pascoli; a Leopardi; a Dante, soprattutto il quinto canto dell'Inferno; e poi St. Exupery; Wilfred Thesiger; Llewellyn Powys; Karen Blixen.

Hai dei rapporti diretti con la letteratura africana?

In Africa orientale la tradizione è soprattutto orale. I canti delle donne Pokot , Turkana, Sambuu sono come un suono della natura.

Qual è l'immagine o l'incontro più bello che ti lega all'Africa?


Mille ricordi ... Cheptosai Selale, la vecchia donna delle erbe. Una vera amica. Ne parlo nel mio ultimo libro. Joseph, Michael. Incontri speciali. Sedermi tra la tomba di Paolo e quella di Emanuele, sotto gli alberi che sono diventati, e poterli sentire vicinissimi. Sveva, la sua bellezza radiosa la sua mente vivace e intelligentissima. La foresta di Enghelesha protetta con le sue creature e i suoi misteri e il lago Baringo, uguale nella lontananza della valle del grande Rift. La luna piena sul mio prato e gli storni, come usignoli.

Sei fondatrice della Gallmann Memorial Foundation che si occupa di salvaguardare il territorio africano, coinvolgendo i giovani in corsi di educazione ambientale e sviluppo sostenibile. In che modo la letteratura c'entra con l'impegno di tutelare l'ambiente?
Ritieni che i tuoi libri contengano anche un messaggio in tal senso?


Spero proprio di sì altrimenti avrei fallito nel mio intento. Tutto ciò che faccio dalla morte di mio figlio, è cercare di proteggere l'ambiente in cui lui - e Paolo- era vissuto e dove ora vivo io e sua sorella- sua figlia. Cerco di fare qualcosa per lasciare un segno; qualcosa che non sarebbe avvenuto se Paolo e Ema non fossero vissuti e morti qui in Africa. Attraverso i miei libri si respira la vitalità della natura e delle sue infinite specie che vanno salvate dalla distruzione umana perché tutte contengono la nostra storia.

La tua Fondazione ha recentemente istituito dei concorsi letterari. Come ti è venuta questa idea e a chi sono rivolti?

Aiutare la creatività è importante, perché è al di la della politica, del tempo della guerra. Amo e rispetto i giovani e voglio aiutarli. Questo è per giovani poeti Kenyoti.

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